sabato 26 dicembre 2009

Capitolo 4 - Le ali della libertà




Era quasi ora. Sonja lo sentiva attraverso il ticchettio delle lancette dell’orologio a pendolo appeso su una parete del lungo corridoio del suo castello. Erano passate due settimane dall’ultima volta, e oggi sarebbe accaduto di nuovo. Era da quando aveva otto anni che questo peso gravava sulle sue spalle, stordendola come se una granata assordante le perforasse i timpani.
Tic, tic, tic…
Un altro minuto e un altro secondo scivolarono via.
I pori della sua pelle cominciarono a dilatarsi e il sudore le impregnò il coletto della sua camicetta verdemare preferita, che metteva esclusivamente nelle occasioni importanti. Certo, era uno spreco indossare proprio quella maglietta di cui sapeva benissimo la fine che avrebbe fatto, ma non le importava. Era come la coperta di Linus: Sonja non poteva farne almeno, sentiva il bisogno di essere accarezzata dalla delicata flessuosità della seta sulla sua pelle nuda, specialmente in quegli attimi di totale solitudine e di irrefrenabile desolazione. Forse poteva sembrare stupido e infantile, ma vero. Su questo Sonja non aveva peli sulla lingua.
Tic, tic, tic…
Un altro minuto.
Le tenebre del crepuscolo iniziarono a imporsi vincitrici sulla città di San Diego, ancora illuminata dalla fioca luce del sole che ormai era un minuscolo cerchietto arancione che sprofondava all’orizzonte.
Sonja era a un passo dall’esplodere: voleva uscire da quella prigione dorata in cui viveva, salire sul monte Everest e gridare al mondo “Perché io? Perché proprio io devo subire un destino così crudele?”. Ma Sonja sapeva benissimo che a queste domande non c’era risposta, e che nessuno, in qualunque emisfero della terra si trovasse, avrebbe potuto salvarla. Nessuno avrebbe voluto.
Tic, tic, tic…
La pioggia scese sulla cittadina spaccando il cielo con un boato, e le gocce picchiettarono una ad una sul tetto e sulle finestre, veementemente.
La sua stanza sarebbe stata completamente buia se non vi fosse penetrato qualche sfuggente raggio luminoso, creando vari ghirigori argentei sulle pareti rosa antico.
Girandosi intorno, Sonja sospirò e decise di stendersi sul suo comodo letto a baldacchino per riflettere. Ma questo era il problema: pensare a che cosa? A quello che sarebbe diventata non appena l’oscurità l’avesse raggiunta completamente e a come avrebbe gironzolato da un quartiere all’altro senza una meta ben precisa, come un’anima in pena?
No.
Voleva che nella sua mente apparissero immagini felici, come quelle che ti augureresti sempre e a cui sorridi al solo pensiero. Ma la sua vita era più complicata di quello che sembrava. Da quando era in fasce, aveva sempre vissuto nella corte del Sole, invidiando le teenager del XXI secolo che possedevano una spensieratezza che Sonja non avrebbe mai sfiorato, ma solo gustato nella sua più fervida immaginazione. Lei non potrà mai ricambiare il calore di altre dita avviluppate alle sue, non potrà mai muoversi senza scatenare ventate gelide al suo passaggio, ma dovrà regnare come è giusto che sia, come vorrebbero le fate della sua corte. O almeno una buona parte. Faceva tutto parte di un ingiusto disegno stabilito anni prima della sua nascita.
Accidenti, era o no anche lei una ragazza del nuovo millennio? Era possibile che qualcun altro doveva prendere le decisioni al suo posto e lei doveva restare semplicemente a guardare senza ribellarsi ed afferrare le retini del suo destino?
Mentre nella sua testa zampillavano questi pensieri tutt’altro che allegri, sentì due grandi mani coprirle le spalle. Quel contatto bollente le scosse un brivido lungo la schiena, sciogliendo le farfalle che si erano annidate nel suo stomaco.
<< Principessa, è il momento. >>
<< Lo so, Owen, lo so… >>
Nonostante la sua aria affranta, Sonja tirò le sue labbra per formare un sorriso stentato.
Owen reclinò il capo, nascondendo la sua espressione imbarazzata e sorpresa. Chiamandolo “Owen” e non “Eoghan”, aveva infranto una delle regole fondamentali della corte del Sole, dove il mantenimento della tradizione e, di conseguenza, dei nomi affibbiati dai propri genitori era fondamentale. Per lei Owen sapeva di moderno, ed era meno antiquato di Eoghan. Ma la loro corte era un ambiente corrotto e pericoloso, e la giovane era ancora molto inesperta in queste pratiche. Non sarebbe sopravvissuta a lungo in quella fossa di leoni. Ed era per questo che Owen, o Eoghan che fosse, aveva il dovere di proteggerla. Mantenere in vita la sua gracile principessa, persa in quella nuvola di capelli biondi che circondava il suo viso a forma di cuore, era la sua missione. Per secoli la sua spada aveva inflitto morte e sofferenza a tutti i nemici che gli si erano schierati contro, e solo pronunciare il suo nome evocava terrore e panico tra la sua gente. Ma di fronte a Sonja, la sua corazza fatta di arroganza e prepotenza cedeva.
<< Owen, apri le finestre, per favore. >> chiese gentilmente Sonja, staccandosi dalla ferrea stretta di lui.
<< Come volete, principessa. >>
<< Oh! Quante volte te lo devo dire. Chiamami Sonja! >>
<< Principess…>>
<< Ah! Ho detto di chiamarmi Sonja. Se vuoi, consideralo un ordine. >>. Il suo tono aveva abbandonato quasi del tutto la tristezza che le aveva incupito l’animo pochi minuti prima. Quasi.
Con un inchino, Owen si allontanò, accostandosi agli infissi color mogano delle finestre. Spalancò le persiane e la luce della luna si scagliò contro il suo volto, rischiarando i riflessi azzurri dei suoi capelli raccolti in una pettinatura a chignon. Un altro suggerimento di Sonja.
L’aria fredda schiaffeggiò il suo torace, riparato solo da una sottile camicia di cotone, e Owen, proprio in quel momento, avvertì la paura, tagliente come una lama, ghermire la sua dolce principessa. Non era per il freddo, perché lei era il Gelo fatto persona. Ma Owen voleva lo stesso stringerla tra le sue braccia, per farla sentire a sicuro, per farle capire che c’era qualcuno che sarebbe morto pur di regalarle quella vita “normale” a cui lei tanto anelava. Certamente non poteva pretendere molto da se stesso. Era comunque una semplice guardia del corpo reale (il suo rango non gli concedeva simili permissioni). Tuttavia, quello che sentiva partiva dal cuore e, per la Dea, l’avrebbe ammesso in presenza dello stesso re della corte del Sole, padre naturale di Sonja, se fosse stato necessario.
Però, quando si girò per rivedere ancora una volta gli occhi della ragazza riflettersi nei suoi, Sonja era già scomparsa come uno spirito fuggevole. Al suo posto, tra un paio di jeans e la sua prediletta camicetta satinata ormai bruciacchiati, emersero un becco dalla punta marrone e un frullo di ali piumate che si alzarono in volo e, fuori dalla finestra, condussero Sonja nel buio della notte, sotto le sembianze di una splendida aquila reale.

Nessun commento:

Posta un commento