venerdì 31 dicembre 2010

Capitolo 9 - Ritorno a Cloud Town







Barretta ai cereali integrali o gocce di cioccolato alla menta? Mmm… proverbiale dilemma… Al diavolo la dieta! Cioccolato!
Kera Williams, nascosta dietro gli scaffali del reparto-dolci del “Denny’s”, il negozio di alimentari più fornito del suo quartiere povero e malandato, stava saggiamente scegliendo quale fosse la prelibatezza migliore da rubare. Non voleva farsi scoprire dal commesso che, nel frattempo, come aveva potuto constatare guardandolo in tralice da una sottile fessura, era chino per terra, intento a ordinare nuovi prodotti prelevati da una trafila di scatoloni marroni odoranti di detersivo per pavimenti e cosmetici per donne.
Con un gesto quasi impercettibile della mano, fece scivolare due bustine di cioccolatini alla menta nella tasca interna del giubbino. Ecco, nessuno l’aveva notata. Perfetto.
Passeggiando furtivamente tra un corridoio all’altro, fece lo stesso con una confezione di patatine al formaggio, un pacco di gomme da masticare alla fragola e due caramelle al limone che le piacevano tanto. Esternamente tutta quella roba non creava gonfiori al cappotto, essendo abbondantemente imbottito con soffici piume d’oca. Ormai ce l’aveva fatta.
<< Signorina Williams! Che cosa state rubando? Su avanti, parlate! >> tuonò la voce baritonale di Danny, profondamente vibrante a causa di un’alterazione di nervi, di un miasma di stanchezza e rabbia.
<< Ma io… non ho… >>, farfugliò Kera con voce inceppata, gesticolando in modo convulso come a mascherare la sua deplorevole stoltezza. Mentire era il suo secondo nome, ma adesso la sua fantasia non nutriva nessuna scusa particolarmente convincente e il suo indiscusso raziocinio sembrava essere fuori uso.
<< È la terza volta questo mese. Ti ho vista, sai! >>, dal “lei” era passato al “tu”, brutto segno, << Non cercare di negarlo. Restituisci ciò che hai preso. Subito! >>. Il suo tono non accettava repliche schiette o perlomeno false, nonostante Kera stesse dando mostra del sorriso più docile e languido che era in grado di esibire, rasentando tenerezza e buone maniere che non appartenevano al suo consueto modo di fare. Ma Denny non ci cascò; conosceva troppo bene quella ragazza.
Tamburellò minacciosamente una spalla di Kera con un grosso indice e mugugnò furente: << È inutile che fingi.>>
<< Signore, vogliate scusarmi. Credo che alla signorina Williams siano caduti questi, vicino alla cassa. >> Kera notò di sfuggita una mano stesa verso Denny con una dozzina di bigliettoni verdi.
L’espressione imperiosa del proprietario si tramutò in una totalmente arenata, come se fosse in preda di un terribile handicap facciale.
<< Non vi avevate fatto caso. >>, dedusse per lui quella straniera voce femminile.
Ma chi è?, si chiese Kera, la quale era girata di spalle e non poteva certamente vedere chi lei fosse. A Cloud Town era una costante incontrarsi con gente strana o beccarsi con lontani visitatori, persone originarie di località sconosciute, curiosi o scienziati che fossero, che erano estasiati dalla fisionomia geologica di Cloud Town. La città degli orrori, così come la definiva Kera, era in parte oscurata da una serie di nubi uscenti da una bocca scavata nella terra, quasi dentellata, di formazione naturale, che da secoli emanava questi caratteristici fumi e, in seguito, ha dato il nome alla mistica cittadina.
Però, per Kera, Cloud Town era vittima di qualche incurabile sindrome; e la ragazza aveva il sentore che tale supposizione fosse il frutto di una sua teoria, partorita all’età di dieci anni, quando cominciò ad assistere a eventi inspiegabili. Era probabile che ci fosse una presenza maligna ed ultraterrena che causasse questo presunto male della città, ma Kera non sapeva proferire a riguardo. Non aveva prove materiali.
Non volendo difendersi dalle accuse purtroppo veritiere di Danny, senza pensarci due volte, Kera si precipitò fuori dal negozio, i piedi che sembravano due locomotive a vapore che si muovevano ad alta velocità, incurante degli improperi che si sentiva sputare addosso e dell’accesa curiosità che si era rianimata in lei come una fiamma che riprende ad ardere su una candela smoccolata.
Era stata scortese nel non ringraziare la sua benefattrice, ma non voleva che la parola pietismo le venisse stampata sulla faccia a caratteri cubitali. Al diavolo! Per un’intera esistenza Kera Williams, vagando per i novi gironi dell’inferno senza che nessuno l’aiutasse, era stata scaraventata da un orfanotrofio all’altro per tutti gli anni della sua dolorosa infanzia, offesa da chiunque con parole troppo triviali per poter esser sopportate e digerite. Era tutta colpa dei suoi genitori, che non avevano mai avuto cura di una figlia destinata a una tale fine. Perché adesso doveva essere diverso?
Aperta la grande porta a vetro che separava Kera dal marciapiede imbrunito della strada, per la fretta impiantò la punta delle sue Nike blu in un’invisibile crepa del pavimento, precipitando per terra e sfregando il sedere sulla superficie ruvida dell’asfalto.
<< Vuoi una mano? >> si intromise la misteriosa ragazza, accostando una mano sulla schiena di Kera.
Ancora lei, è una persecuzione! Prima ancora di poter rispondere con un “no” decisivo, Kera venne sollevata in un attimo e sentì il dolore dei graffi freschi incamminarsi lungo il suo braccio arrossato e gonfio.
<< Perché mi hai aiutata? Cioè, nessuno ti ha chiesto niente…>>. Si ripulì i pantaloni con una violenta spolverata di mano, ansante e stizzita, e il fiatone le smorzò le parole mentre cercava di addolcire il suo tono duro e infervorato.
<< Ci vuole per forza un motivo per aiutare un essere umano? >>, riprese l’altra ragazza con voce cristallina e appena udibile all’orecchio umano, come un dolce e confortevole sussurro.
Aveva le fattezze di una sirena seduttrice che incanta gli stolti marinai portandoli alla deriva, e sembrava così surreale, intoccabile ed eterea che Kera a stento osava adocchiare le sue maniere educate e femminili, ma nel contempo così sicure come il fiero portamento di un’Amazzone. Invece lei era là, a due passi, con i capelli neri raccolti in una crocchia gentile e con due boccoli voluminosi che si allungavano dolcemente sul viso, come raggi di luna cristallizzati in una tela notturna. Indossava una gonna bianca di stoffa pregiata e drappeggiata dai serpeggianti sospiri del vento, una maglia sottile con una scollatura a V e un casto felpino di lana dello stesso colore. Uno strano amuleto luccicava sul suo petto ed emetteva un grave bagliore dorato, meraviglioso come le linee del suo volto.
<< Ehi! Come fai a sapere il mio nome? Io non ti conosco. >> Per quanto angelica quella tipa potesse essere, Kera non era stupida.
La bellissima ragazza sorrise e, toccandosi una clavicola, accennò al cartellino che bollava Kera come cameriera dell’unico locale decente di tutta Cloud Town, il “The fire”. Il giubbino non era servito a nasconderlo del tutto.
<< Ah, giusto… ehm, sì. >> Santi Numi, stava per caso blaterando come una donnina? Questa non è la Kera Williams che conosco, si rimproverò. Doveva cercare di aggiungere una frase meno idiota possibile, e, se non ci fosse riuscita, era ufficiale: stava dando di matto. Lo stress lavorativo si faceva sentire non soltanto psicologicamente. << Non sei di qui, vero? >>, chiese quasi sbuffando per l’esasperante nervosismo.
Ancora un altro sorrisino prima di chiarificare. << No, infatti. Mi sono appena trasferita. >>
<< E hai anche un nome? >>, domandò Kera inarcando un sopracciglio corvino. Ora era più sprezzante, ma voleva saperne di più.
<< Mi chiamo Beatrix… Beatrix Miller. >>, si presentò lei, sistemandosi un paio di occhiali argentei dalla montatura chiara che le celava la parte superiore del viso.
Rimasero ferme a fissarsi per qualche momento insormontabile e poi Beatrix ruppe quell’imbarazzante silenzio, facendo spallucce per sottolineare l’imminente impegno che aveva in programma il giorno stesso. << Devo andare adesso. A presto, Kera. >>
Fece per girarsi, ma Kera l’aggrappò per un braccio, avvicinandola a sé in modo che sentisse ciò che stava per riferirle. << Insomma, non ci conosciamo e io sono una persona di poche parole, perciò… grazie. >> Il viso imporporato di Kera, che non riusciva a credere alla sua stessa affermazione!, venne rigato da abbondanti gocce di sudore che impregnavano l’attaccatura anteriore dei suoi capelli scuri.
Con la scrollata di spalle, Beatrix declinò il capo con fare principesco e si diresse verso la biforcazione della strada pullulante di attività mattutina. << Il piacere è tutto mio... Kera. >>
Con l’aria tersa di Cloud Town che rianimò i suoi nervi intorpiditi, Kera socchiuse gli occhi e, quando li riaprì lentamente, sentì solo un getto di vento freddo che tentava di sostituire le tracce del soave passaggio della nuova ragazza, oramai sparita dalla circolazione. Nient’altro che una blanda carezza, rapida e morbida.

Dopo aver lasciato San Diego e il bizzarro complesso di Will, Beatrix non era riuscita a prendere sonno in quella notte carica di dubbi sconvolgenti. Si rigirava spasmodicamente nel letto, guardava il circuito notturno di stelle senza ricavarne una risposta propizia, vagava su e giù per la sua camera del motel affittato, emozionata dalle furiose novità che le si propinavano davanti. Ormai aveva deciso. Aveva preso un volo per Los Angeles di mattina presto, per poi noleggiare alle nove e mezza una Ford di seconda mano affinché la conducesse a Cloud Town in un baleno. Aveva programmato tutto per il suo viaggio con la massima precisione. D’altronde, era abituata a questo genere di partenze furtive che facevano parte della sua vita intrisa di battaglie a non finire. Il bello di essere l’ultima Incantatrice sulla faccia della Terra.
Cloud Town era spaventosa con i suoi infinitesimali boschi che racchiudevano la città come in un riccio, complice l’alone di mistero che le svariate storie vi costruivano sopra. Però, quella sua natura ribelle che sembrava prevaricare sull’uomo, trasformava il più potente e conosciuto Pandemonium in un posto più particolare rispetto alle solite metropoli che Beatrix aveva visitato.
L'Incantatrice emise un singulto, buttando la testa all’indietro per annusare gli odori sgradevoli di demoni non molto distanti da lei. Quel sentore nauseabondo la riempiva fino al midollo, visto che Cloud Town era invasa da inette creature oscure di ogni sorta. Da mettere i brividi.
Beatrix, sentendosi accerchiata da quelle opprimenti presenze, decise di rinvigorire la sua aura da Incantatrice.
Nel frattempo, girovagando per Cloud Town, aveva intravisto una piccola luce in quell’increscioso putiferio, una venator: Kera Williams. Una ladruncola che probabilmente non sapeva nemmeno di essere una cacciatrice novizia. La sua evidente inesperienza era tangibile dall’armonia dei contorni delle sue mani d’artista, non da fiera guerriera, e dall’assenza di un cipiglio assassino che Beatrix aveva scorto in molte cacciatrici sanguinarie. Mark Turner e le sue donne ne erano un esempio.
Beatrix cercava un minimo di appoggio, tuttavia non voleva rovinare l’esistenza di qualcun altro. Purtroppo Kera si sarebbe, prima o poi, ritrovata in un mare di guai: essere una cacciatrice senza iniziatore, un combattente che le insegnasse a usare il suo Potere, era molto pericoloso, considerando che i mostri cercano sempre di eliminare il nemico più forte nella sua momentanea debolezza. In guerra non c’è esclusione di colpi, e Beatrix non aveva alcuna intenzione di rimanere con le mani in mano. Dopotutto, una cacciatrice al proprio fianco non le dispiaceva affatto.
Il suo cellulare vibrò nella tasca interna della giacca facendola trasalire. Beatrix premette il tasto verde di apertura di chiamata e accostò il telefono all’orecchio. << Pronto? >>
<< Ragazza…non abbiamo l’aria di essere molto felici, o sbaglio? >>
Sgomenta, l’Incantatrice frenò di impulso l’attenta perlustrazione per le vie di Cloud Town. << Will? Sei tu? >>
Il mutaforma allegro di costituzione schioccò la lingua in modo sonante. << Eh già, dolcezza. Ti sono mancato, ammettilo! >>, rise in modo gracchiante, come se avesse un tremendo mal di gola che gli sfregiava crudelmente le corde vocali.
Pensierosa, Beatrix si sfiorò la fronte e serrò le dita sulle labbra rosee. << Potrei farti la stessa domanda. >>
<< E dai, ragazza, sorridi, no? Non ti stai divertendo a Cloud Town? Non è come Disneyland? >>. Quel memento di scherno era la giusta punizione che Beatrix si aspettava dal suo fedele amico per averlo abbandonato con una spiegazione quasi del tutto incomprensibile. Era conscia di meritarlo. Tanto valeva la pena di rispondere scherzandoci su. << Che spiritoso! Lo so che sei preoccupato per me. Non fare la prima donna! >>
Will irruppe con una risata contagiante. << No! No! Non lo farei mai! Dio, no! Piuttosto…ti ho chiamata per darti piacevoli notizie, mia cara. >>
Adesso la situazione si faceva interessante. << Toh, sul serio? E quali sarebbero? >>
Stare ai giochi di Will la gonfiava di pura gioia infantile e Beatrix non era restia a condividere questo sentimento goliardo con il suo adorato demone.
<< Cammina più avanti e vedrai. >>
La ragazza non replicò con alcun tipo di contestazione. Arrivata in fondo alla strada, vicino al lungomare il cui avviluppante sapore salino raggiungeva quella zona verdeggiante penetrando già dai lunghi chilometri di scogliera, Beatrix osservò una moderna casa a due piani, recintata da una staccionata rossa e da un accurato giardino, un arcobaleno terrestre plasmato da un impeccabile ed abile artista.
Beatrix la riconobbe subito: era la casa di sua madre.
L’Incantatrice l’aveva squadrata solo in vecchie fotografie ammuffite dal tempo, essendo stata a Cloud Town un paio di volte quando era una ragazzina troppo piccola per poter ricordare. Si era sempre deliziata nel sentire Dalila raccontare della sua infanzia passata lì, in un’abitazione fuori dal comune vicina a boschi fatati e a un mare spumeggiante. A quanto pareva, la madre non aveva inventato tutto nell’intento di far addormentare Beatrix nella sua graziosa culla.
A detta di Dalila, però, la casa era rimasta abbandonata per anni. Nessuno aveva voluto acquistarla perché giravano strane voci sul conto della madre di Beatrix e su possibili arti oscure da lei praticate. Niente di più assurdo. Era un’Incantatrice come Beatrix, e poteva capitare di perdere il controllo di tanto in tanto. Beatrix stessa viveva questi momenti particolarmente seccanti per via di Will, o peggio, di Mark. La pazienza è la virtù dei forti non era un’espressione appartenente al suo vocabolario.
<< Will, io non so che dire… come hai fatto? >>. Una casa tutta per sé, lontana dai quartieri affollati, dalle emozioni umane, dalle angherie degli Inferi, dove era possibile scorgere la magnificenza del brillante oceano… un sogno.
<< Avevo dei risparmi e in fin dei conti non potevo lasciati in un fatiscente hotel da quattro soldi. >>, replicò Will, che distese i piedi sulla sua scrivania con un tonfo metallico.
<< Ma non avevi detto di essere al verde? Quanti risparmi avevi…no, non me lo dire. Meglio che io non sappia. >>
<< Non ho fatto niente di illegale, se era questa la domanda. Solo un piccolo lavoretto semplice semplice fatto tempo fa, giusto per non rimanere al secco. E poi, Beatrix, quante volte te lo devo dire. Quando hai a che fare con una volpe, sappi che la sua vera natura è quella di stupire gli umani con la sua magia, con le illusioni che riesce a creare. Realizziamo l’impossibile, ragazza, e recuperare una vecchia casa in meno di otto ore è una sciocchezza, per noi. Siamo sublimi prestigiatori. >> Terminato il suo solenne soliloquio, Will si sgranchì la schiena con un gemito. << Uhm... mi raccomando, Incantatrice, occhi aperti. >>
<< Certo, ma… Will? >> La voce di Beatrix tremò leggermente.
<< Dimmi pure, ragazza. >> L’Incantatrice avvertì un fruscio, come se Will si fosse esposto sul ripiano del tavolo da lavoro tenendo stretta la cornetta telefonica, preoccupato e ansioso.
Beatrix avrebbe voluto dire “ti voglio bene, Will”, con tutto il suo cuore emotivamente instabile e fragile, ma correre dei rischi non era la sua priorità. Così facendo, avrebbe regalato a Will un biglietto gratis di solo andata per Cloud Town, conoscendo il mutaforma troppo apprensivo nei suoi confronti. Beatrix era agitatissima in quel momento, però non lo diede a vedere. Non lo avrebbe permesso.
<< Ci sentiamo, Will. >>, decise alla fine con voce monocorde.
L’amico, probabilmente deluso da quel comune congedo, si schiarì la gola e aggiunse con un tratto di simpatia: << Prima di salutarci, Beatrix, osserva bene di fronte a te. >>
<< Ma a che cosa ti riferisci? Io non vedo nien… >> Per poco Beatrix non fece cadere il telefonino per terra. << Oddio! Quella è… quella è… >>, balbettò correndo a perdifiato per raggiungere la meraviglia delle meraviglie che splendeva davanti ai suoi occhi come un manufatto divino.
<< Quella è una Harley Davidson Iron 883. Tutta per te, piccola. >>, concluse Will sorridendo sornione.
<< Will! >> Beatrix non riusciva a sostenere l’impeto di gaiezza che le si montò in corpo.
<< Ne parleremo quando sarai meno euforica. Vai a farti un giro… le chiavi sono già inserite. E per l’amor di Dio, mettiti il casco e non fare la cattiva ragazza. >>, la schernì con elettrizzante eccitazione.
Beatrix scoppiò a ridere, mentre le sue dita tremanti scorrevano sulla copertura della sua favolosa moto nera. Su di essa si estendevano le ali piumate di un angelo bianco aperte in volo, disegnate così perfettamente da assomigliare a glifi tribali, armoniche in ogni punto. << Okay! Okay! Io non ci posso credere. Non so come ringraziarti, Will... non me lo aspettavo, davvero. >>
Will sorrise. << Goditi il regalino, Beatrix. >>
Quando chiuse la telefonata, la ragazza non fece altro che esaudire la richiesta del suo caro amico. Un giro per l’inferno poteva rivelarsi un’esperienza molto interessante.

<< Merda! Ci mancava solo un taglio per completare la serata! >>, imprecò Kera succhiandosi il dito sanguinante. Una scheggia sul pavimento del The fire - che aveva lucidato con olio di gomito per più di un’ora! - le aveva perforato la parte superiore dell’indice. Con un’altra imprecazione poco aggraziata, Kera tamponò la ferita usando un paio di kleenex e sentendosi una frignona per essersi lamentata per un innocuo, superfluo taglietto.
<< Kera, ti sei fatta male? >>. Kyle Reed, il proprietario del bar, le corse incontro toccandole apprensivamente un braccio. Le tolse i fazzoletti dalle mani ed esaminò da sé il danno con modi affabili. Aveva la tipica aria del barista affascinante, taciturno e vagamente trasandato: delle ciocche biondo cenere gli ricadevano sulle spalle in flessuose onde scomposte, un’aderente t-shit blu gli imprigionava il torace ben delineato e glabro, e aveva un paio di labbra tumide e soffici che invogliava qualsiasi donna a farsi condurre da lui in peccaminose notti d’amore. Poteva sembrare da tutti i punti di vista un’opera di Michelangelo scolpita nell’alabastro più prezioso, se non fosse per quella sensazione inquietante che strisciava sulle braccia di Kera ogni volta che il ragazzo le si avvicinava.
<< Kera? >> la richiamò lui.
Strabuzzando gli occhi smeraldini, Kera tossì nervosamente e, circospetta, sbatté le lunghe ciglia da cerbiatta che facevano ombra sulle sue guance latte e caffè. << No-no. È tutto okay. >>
<< I cerotti sono nel mio studio. Secondo cassetto a destra. >>
<< Ah, non ce n’è bisogno! Vedi, non sanguina più! >> Kera sbandierò il dito ferito sulla faccia di Kyle e sorrise beffarda e piena di gratitudine. In effetti la ragazza aveva ragione: il sangue si era del tutto coagulato e la lesione era già risanata, una striscia marrone intorno alla sua povera unghia mordicchiata con voracità.
<< Senti Kera, >>, cominciò Kyle traendo un profondo respiro, << hai intenzione di esibirti questa sera? Perché il gruppo che doveva venire mi ha dato buca, quindi mi chiedevo se ti andava di prendere il suo posto. >>. Il suo capo la fissò con i suoi magnifici occhi bicolore, uno color cioccolato, l’altro rosso rubino, profondi e particolarmente attenti ed espressivi. Kera non aveva mai visto una cosa del genere: parevano esprimere una doppia personalità di cui Kera non era a conoscenza.
<< Per me non c’è problema. Devo solo chiamare i ragazzi. >>, comunicò lei con un lieve imbarazzo.
<< Perfetto. >> Kyle era l’incarnazione dell’ardita pacatezza, del misterioso fascino da bravo ragazzo, della costante applicazione al lavoro, della lodevole abilità di saper nascondere un passato troppo doloroso per potere essere raccontato. Nessuno conosceva Kyle Reed più del necessario. Tutti lo spacciavano per un onesto cittadino di Cloud Town, o almeno quella era l’idea. Ma la zigzagante cicatrice sul petto, che Kyle copriva con le sue infallibili maglie a girocollo, diceva tutt’altro: era così scavata nella carne bronzea che sembrava essere un colpo di mannaia, inferto per cavargli il cuore pulsante e vivo dalla cassa toracica. E Kera l’aveva vista una volta sola, quando per caso si era ritrovata a spiare Kyle mentre il ragazzo si detergeva il dorso nudo gocciolante di birra.
Il suo capo ritornava al bancone per asciugare e risistemare i bicchieri da liquore da poco lavati, quando la porta d’ingresso si aprì con un cigolio, permettendo all’aria notturna di avvinghiarsi sulle gambe scoperte di Kera che portava dei miseri shorts logori e fuori-moda.
Tutt’a un tratto, entrò lei… come si chiamava… Beatrix Miller. Si girava intorno con passi leggiadri, come se fosse una ballerina di danza classica, e con i piedi che gentilmente toccavano terra. Non si era cambiata d’abito; solo che adesso i suoi capelli erano sciolti sulla schiena, un confuso turbine di riccioli neri che scendeva fino alla vita sottile, un tripudio di bellezza acqua e sapone. Come se Kera l’avesse chiamata per nome, Beatrix la guardò con interesse, arricciando le labbra in un dolce sorriso da fata. Scelse un tavolino vicino al palchetto dove Kera si sarebbe esibita a breve e si accomodò spensierata.
Inconsapevolmente, Kera si avvicinò a lei e strinse con agitazione il taccuino delle prenotazioni. << Ciao, Beatrix. Prendi qualcosa? >> le chiese.
<< Mmm…una coca va benissimo. >> Ma Beatrix, a differenza di Kera, non stava sondando l’altra ragazza con insaziabile caparbietà. Il suo occhio proseguiva oltre, ed era concentrato sull’uomo alle sue spalle.
Kyle.
Però non c’era ammirazione o intesa fisica nelle sue attenzioni; era una pura analisi mentale, fatta con distacco e serietà, così come quella di Kyle che, intanto, serviva i clienti da dietro il bancone. Kera si sentì smarrita in quell’infuocato oceano di sguardi e preferì non prendere alcuna iniziativa che potesse peggiorare il vacillante equilibrio del The fire.
<< Non vuoi nient’altro? >>, si convinse a domandare Kera con un che di agitazione.
<< No. Una coca può bastare. >>
Dopo qualche minuto, Kera ritornò con la bevanda ghiacciata in una mano e un sottobicchiere di carta nell’altra. Non riuscendo a scalciare quella fastidiosa sensazione da terzo incomodo, si appollaiò sul divanetto rosso porpora di fronte a Beatrix e sospirò. << È un tuo ex o cosa? >>
Beatrix sembrò confusa. << Come, scusa? >>
Kera si passò la lingua tra i denti e, silenziosamente, fece cenno con la testa in direzione del barista. << Mi chiedevo se il buon Kyle fosse un tuo ex. Prima sembravate due pantere nate per ammazzarvi a vicenda! >>
<< Io non so chi sia, lo giuro. Ma come hai detto che si chiama? Kyle? >>
<< Sì, Kyle Reed. E quanta roba c’è là sotto, eh? >>, disse Kera reggendosi il mento con un palmo all’insù.
Beatrix non rispose alla provocazione. << E così lavori qui. >>
<< Da qualche anno, ormai. La paga è buona e io non mi lamento. >>
<< Capisco. >>. Beatrix sorseggiò la sua bibita disinteressata e, dopo il primo sorso, abbandonò la lattina con un gesto. << Immagino che la vita qui non sia facile, con tutto il pandemonio che si è scatenato con la storia del serial killer. >>
Oh, no, non mi dire che è uno sbirro o una giornalista in cerca di scoop!<< Non mi meraviglio che quello psicopatico le abbia prese di punta. Quelle ragazze erano delle poco di buono, soprattutto la rinomata Katherine. Solo Priscilla si salvava… era davvero un tipo okay. E non meritava la fine che ha fatto. >> Kera tracciò dei cerchi imperfetti sul legno ammaccato del tavolo, evitando ogni contatto visivo con Beatrix. << Che Dio l’abbia in gloria. >>
Beatrix si sistemò sullo schienale a braccia conserte. << Purtroppo non possiamo scegliere come morire. Né quando. >>
<< Già, grande fregatura! >> Kera girò la testa a destra con un movimento improvviso e gridò forte: << Kyle! Vieni un po’ qui! >>
Sentì Beatrix agitarsi sulla sedia. Bene.
Ferreo e compunto, Kyle si avvicinò alle due ragazze nella sua andatura decisa e composta, e non accennò una minima traccia di costernazione quando invitò Kera a illustrargli il problema che si era accidentalmente verificato. << Cosa c’è, Kera? >>
Kera allargò le braccia appoggiandole sulla spalliera del divanetto. << Non è successo niente, grande capo. Volevo presentarti Beatrix. È nuova. >>
Beatrix non parve disciolta da quell’imprevisto e si comportò in modo del tutto normale, senza tradire alcuna attrazione per il barista, come invece si sarebbe aspettata Kera. << Il piacere è mio. >> Distese una mano ben curata e accarezzata dalla manica del suo vestito opalescente, quasi impalpabile.
Kyle accolse la sua stretta con gentilezza. << Benvenuta a Cloud Town, Beatrix. Spero che il tuo soggiorno sia piacevole. >>
Beatrix illuminò la sala con un sorriso caldo e sincero, ma pur sempre accattivante. << Sì, me lo auguro anch’io. >>
Ritirata la stretta di benvenuto, il ragazzo incrociò le braccia stringendosele al petto. << Come mai qui a Cloud Town? Non è una città molto… >>
<< … ambita. >>, lo aiutò Beatrix scostandosi i capelli dal viso.
Kyle corrucciò la fronte in un’espressione di fulminea confusione. << Già… >>
<< Mia madre viveva qui, all’apertura del Black Wood. >>, spiegò Beatrix stentando un’espressione eloquente.
Kera spalancò gli occhi. << Nooo! La casa dei Lorey! Sei parente della strega! >>
Gli occhi di Beatrix si assottigliarono fino a diventare delle fessure azzurre minacciose come lampi distruttori, le labbra tremule e stese in segno di ammonimento e disappunto, le nocche bianche come lenzuoli per la poderosa stretta delle dita. << Mia madre non era una strega. >> Bastò quella frecciata tagliente a far tacere Kera all’istante.
Kyle intervenne nella discussione che stava prendendo una pessima piega. << Dalila Lorey non era una strega. Che fai, Kera? Ti lasci ingannare da insensate dicerie di quartiere? >>. Le parole del barista erano perfettamente chiare, ma non erano mirate a colpire Kera nel personale; erano una lineare constatazione di fatto che non dava peso a stupide credenze popolari.
<< Se lo dite voi. >>
<< Quindi, Beatrix, sei venuta in città per affari? >>, domandò Kyle riprendendo il discorso interrotto dalla brusca interferenza di Kera.
<< Direi di sì. Ho un compito molto importante da svolgere. >> Beatrix alzò lo sguardo, il mento aggraziato e latteo che contrastava il nero del colletto di pelle della sua giacca, gli occhi illuminati da una sana luce di determinazione.
Kyle rimase a fissarla con un emblematico sorriso sulle labbra, i muscoli stretti intorno al suo corpo magro. << Buona fortuna, Beatrix. Spero che tu possa trovare quello che cerchi. >>
Mentre volgeva il capo da una parte all’altra, sulla fronte di Kera si delineò un solco di subitanea incomprensione, poiché Beatrix e Kyle continuavano a osservarsi con uno stravagante duello di sguardi, come se discutessero telepaticamente parlando una lingua così complessa ed articolata da risuonare arcana.
Il barista abbandonò le due ragazze adombrandosi come una nuvola grigia silenziosa, dispersa in un angolo buio del bancone.
Beatrix si chiuse in se stessa e provò a calmare il respiro divenuto troppo accelerato per i suoi gusti. Esporsi in pubblico per così tanto tempo la stancava parecchio e le consumava energia utile per eventuali scontri corpo a corpo. << Kera, è stato un piacere. >> Si alzò delicatamente e portò con sé la scia di un invitante profumo di shampoo alle peonie, mentre si dirigeva verso l’uscita principale.
Impaziente, Kera si precipitò sul punto in cui Beatrix stava camminando. << Aspetta, devo dirti una cosa… Il 31 ottobre, qui al The fire, ci sarà una festa, la festa di Halloween, e io canterò con il mio gruppo. Se ti va, potresti venire… >>
Prima che Kera potesse ottenere da Beatrix una risposta affermativa al suo invito, come se l’Inferno stesso stesse aprendo le sue ampie fauci, qualcuno entrò nel locale con una tale arroganza da raggelare i volti brilli di alcuni ragazzi fermi a conversare e a bere a un tavolo.
Kera e Beatrix si scambiarono un’occhiata e si soffermarono sulla malvagia presenza che aleggiava sul ciglio della porta. Alexis Berkley, con la schiena dritta e le mani sui fianchi, ispezionava il locale con una nota di disprezzo molto evidente.
Quando, finalmente, rintracciò ciò che stava cercando, ammiccò desiderosa e soddisfatta.
<< Kyle Reed. Sapevo di trovarti qui… e che piacere vederti, come ai vecchi tempi. >>
Kyle rimase attonito, però non smise di pulire i suppellettili sporchi che erano rimasti sul lavandino. << Tra noi non ci sono mai stati “vecchi tempi” così felici da poter essere riesumati. E mai ce ne saranno di nuovi. >>
Beatrix guardò Kera presa da un moto di irritazione rabbiosa, ma si concentrò sulla vampira appena giunta: l’odore di morte vecchia era ben coperto da quello degli oli profumati che molti vampiri erano propensi a usare per celare la loro natura putrefatta. Due cerchi rosa dipingevano le sue gote ceree nel tentativo di dare alla vampira un aspetto più umano e vivo, e un vestito molto succinto le fasciava il corpo anoressico come le pennellate di un artista rinascimentale. Una pelliccia di volpe le circondava le spalle e il collo, sui quali danzava un’eccentrica acconciatura che un bravo stilista avrebbe definito “stile anni ‘30”. Ci mancava solo una sigaretta con lo stelo lungo e Alexis sembrava uscita da un film di Claudette Colbert. Affianco ad Alexis, c’erano tre giovani liceali in nero addobbate come alberi di Natale. L’eccentricità non deve essere un semplice vizio della loro padrona, pensò Beatrix, intuendo che quelle due dovessero essere streghe nere della peggior specie al servizio di Alexis. Le loro aure erano nerastre e rinsecchite come aridi deserti. L’Incantatrice ricordò che Will aveva parlato proprio dell’osculum infame praticato a Cloud Town, e trovò orripilante il pensiero di baciare il fondoschiena del Diavolo anche per ottenere un minimo di Potere.
A due centimetri da Kyle, Alexis ridacchiò fanciullescamente per la resistenza del ragazzo e fece le fusa in un invito più indecente che provocante, sussurrando appena: << Vuoi uccidermi, Kyle? Lo che lo vuoi. Vuoi darmi fuoco o tagliarmi la testa di fronte a tutti? >>
Kyle si limitò a strofinare più forte gli ultimi contenitori rimasti. << La tua morte mi non gioverebbe alcunché, Alexis. Semplicemente, la ignoro. >>
Infastidita, Alexis gli volse le spalle con un volto ancora più pallido per una creatura abituata a suggere il filtro vitale altrui, e si concentrò su Kera. Sbatté le ciglia nere come pizzi come se non credesse a ciò che stava vedendo.
Beatrix avvertì un cambiamento improvviso delle sensazioni provate dalla vampira: da desiderio sfondato a impellente fastidio. L’astio che vigeva tra Kera e Alexis si era consolidato da anni, ed era evidente che la cacciatrice e la vampira non si sopportassero a vicenda.
Kera stava mutando velocemente, e il suo Potere da cacciatrice si espanse come una ragnatela intorno a lei, formando un guscio inaccessibile agli ignari e diffidenti umani. La ragazza era nauseata dalla vista di Alexis sul suo posto di lavoro, dove si svolgeva gran parte della sua quotidianità. Dettaglio che non doveva essere sfuggito alla vampira. E, senza accorgersene, Kera aveva attivato il suo Potere nascente come arma offensiva: per il momento, l’invasione del suo territorio era un modo per far scattare una scintilla del suo potenziale. Col tempo avrebbe imparato a controllarlo meglio e, soprattutto, a utilizzarlo con moderazione.
Alexis percorse i pochi metri che la separavano da Kera, priva della galanteria che il suo completo di classe ispirava. Beatrix immaginò che in vita la rediviva fosse una bambinetta di strada che non possedeva un soldo per permettersi grandi lussi e che, probabilmente, era stata viziata in seguito dal suo Creatore.
Con la sola forza degli occhi, Alexis espresse il suo desiderio possessivo nei confronti del barista e sorrise a Kera, sfidandola ad avere un comportamento inopportuno e avventato. Come la vampira aveva previsto, Kera si gettò a capofitto su lei, ma Beatrix l’agguantò per un braccio prima che fosse troppo tardi.
Kera scattò furiosa verso l’Incantatrice e la pregò in silenzio di lasciarla andare. Beatrix accostò le sue labbra al volto della cacciatrice ed evitò comunque di bisbigliare: Alexis avrebbe ascoltato le sue parole senza sforzo alcuno. << Tu sei sola contro tre. Loro sono armate, tu no, e adesso sei accecata dall’ira. Non ragioneresti e perderesti. >>
Kera scosse la testa. << Armate? Loro non sono armate, Beatrix. Posso farcela, e ho troppa voglia di spaccare il muso di quelle quattro. Con permesso. >> Provò inutilmente a liberarsi dalla presa di Beatrix.
<< Vuoi ascoltarmi, dannazione! Devi osservare, non semplicemente guardare. È questo il tuo problema. >> Beatrix fece segno con il capo per far notare a Kera i pugnali che le due streghe nascondevano all’interno dei loro vestiti dark, sottilissime lame mimetizzate nelle pieghe delle loro vesti.
Kera si perse nell’intento di capire e annuì spaventata dalla pesante artiglieria. Osservare, non semplicemente guardare, si ordinò.
<< Kera Williams, io so chi sei, anche se tutti fingono di non saperlo. La povera figlia bastarda di una sgualdrina. Come potresti ferirmi o lontanamente battermi? >>
Beatrix fu inghiottita dalla furia di Kera che si schiantò violenta sulla sua pelle e si concentrò il più possibile per mantenere i suoi sensi lucidi, come un lottatore che si riprende, affannato, da un’insidiosa contromossa nemica. Entrò nella mente di Alexis, nella parte emotiva, e le uniche immagini che vide furono viali sporchi di fuliggine e acqua piovana, pietre grigie inumidite dalla pressante nebbia che si estendeva nell’aria come un manto palpitante, prostitute in ghingheri e nobili signorotti usciti da sudici bordelli e diretti alle loro personali barouche, e monetine che cadevano per terra, vicino ai minuscoli piedi di una bambina emaciata come una creatura svuotata del sapore del vivere. Il freddo e le ombre erano incontenibili e pervadevano tutto ciò che circondava le fragili membra di quella povera orfanella, affamata e infreddolita.
<< Io non ne sarei tanto sicura, petit Alexandra. >> Beatrix si contrappose tra Kera e Alexis, e usò lo stesso appellativo con il quale alcune donne di buon cuore si rivolgevano alla bambina malnutrita che un tempo era stata Alexis. Prima di diventare un mostro.
Questo sembrò cogliere alla sprovvista la vampira, che distolse lo sguardo con uno scatto. << Mio padre ti vuole nel suo ufficio questa notte. Ti invito a non mancare all’incontro, Kyle. >> Alexis uscì dal The fire sbattendo i tacchi, così scossa da non poter duellare decentemente con Beatrix, o più semplicemente, proferire verbo. Le sue serve, stupefatte, la seguirono dileguandosi nelle tenebre a cui anelavano confondersi.
<< Come hai fatto? >> Kera aveva la bocca spalancata e le braccia pendenti, e Beatrix non si lasciò sfuggire un sorrisetto baluginante. << Il passato può essere molto doloroso, Kera. A volte ci costringe a rimanere incollati a memorie di un tempo che vorremmo cancellare, che vorremmo non aver mai vissuto. Purtroppo, non si possono conservare solo i ricordi belli e gradevoli. Ma il tempo è l’unico che ci aiuta ad andare avanti, perché ci mostra fino a che punto siamo cambiati e come abbiamo reagito e lottato per questo cambiamento. >>
Con un sospiro, Beatrix decise di far riflettere Kera sull’accaduto e si poggiò sul pomello ottonato e consunto della porta. Si voltò un’ultima volta e, oltre l’espressione buffa della cacciatrice, incontrò i mistici occhi di Kyle. Allontanandosi, fissò nella sua memoria il loro scintillio, troppo accecante per poter essere definito umano. E nuovamente, nelle pericolose ombre di Cloud Town fuori dal The fire, a Beatrix si mozzò il fiato quando si ritrovò riempita dalla stessa ferina fragranza al muschio bianco e cenere che aveva stuzzicato i suoi pensieri in quel vicolo di San Diego.


Alexis sbatté la porta della propria stanza in modo così violento che i canarini gialli vicino al suo letto volarono impazziti nella loro gabbietta di metallo. Prese le riviste di moda con il suo corpo da modella disegnato sopra e le scaraventò fuori dalla porta. Strappò i suoi vestiti riversati sul letto e ruppe con un calcio la portiera dell’armadio. Scossa dai brividi, con le unghie lunghe e affilate di un demone, sfregiò le tende rosa antico riducendole in rettangoli sottili smossi dalla brezza autunnale.
<< La odio! La odio! >>, squarciò la quiete della sua dimora con un urlo selvaggio e acuto. Beatrix Miller, l’ossessione di suo padre. La persecutrice dei suoi incubi.
<< Mia stella, lo sai che chi rompe uno specchio, verrà inseguito dalla sfortuna per sette anni? >> Claudius, con le braccia dietro la schiena, annuiva raggiante come un padre interessato dell’incolumità della propria figlia e osservava i cocci di vetro che secoli orsono costituivano un fantastico esemplare di specchio neoclassico francese.
Alexis si guardò attorno e si coprì il viso con la sua pelliccia di volpe. << Che ci trovi in lei? Ah? Cosa ha più di me? >> Lacrime cremisi si fecero attendere alla base dei suoi occhi, e Alexis volle frenare l’istinto poco femminile di asciugarsele rozzamente con una manica di seta. Aiutandosi con i due pollici, le rimosse facendole scorrere lungo le ciglia umide.
<< Mia stella, non fare la sciocca. Beatrix possiede un Potere che potrà rendere le nostre vite migliori. Devi solo attendere, figliola. Quella ragazza non sarà un problema per molto tempo. >> Carezzò le guancie di Alexis e portò la fronte della figlia al suo collo, baciandola con affetto. << Hai fatto ciò che ti ho chiesto, Alexis? >>
Lei annuì. << Certo. Kyle ti raggiungerà presto. >>
Claudius strofinò la sua pelle marmorea ed esangue su quella di Alexis, fredda come la pioggerellina ghiacciata che cadeva candida dal cielo e bagnava la superficie vetrata delle finestre. << Sono proprio fortunato. Il Diavolo non poteva donarmi una figlia migliore. >> Il vampiro la baciò ancora prima di mettere piede fuori dalla sua stanza con una calma quasi patologica.
<< Claudius! >> Alexis richiamò il padre dall’uscio con voce squillante, i muscoli guizzanti e rigidi che segnavano livide tracce sui suoi abiti antiquati d’alta classe.
Claudius tornò indietro e le sorrise. << Sì, mia stella? >>
<< Cosa ne farai di Kyle? Non fargli del male. Lui è mio. >>
<< Oh, Alexis… quando sarà tutto finito, avrai tutto ciò che vuoi, tesoro mio. Tutto ciò che vuoi. >>


Con la punta delle scarpe, Kyle Reed disegnò una confusionaria sequenza di rune sul selciato, le mani serrate nelle tasche dei jeans, ciocche di capelli arricciate vicino alle orecchie per l’insopportabile umidità che si rifaceva viva annualmente nei primi giorni di ottobre.
Temporeggiò nell’ombra per qualche minuto; l’oscurità era sempre stata la sua poesia, le dolci note di una melodia che solo il suo orecchio poteva udire e gustare fino in fondo. Era la sua seconda anima, che lo proteggeva dalle imperizie di questo mondo perverso e corrotto, ma del tutto incosciente della fervente realtà delle cose. Era l’unica in grado di accettare la sua condizione, il suo più intimo essere, la sua brama.
Ciononostante, in quella notte, Kyle non si aspettava un proseguo della serata pressoché promettente nella lussureggiante villa di Claudius. Questa si trovava a nord del Black Wood, tra le tenebrose dita degli alberi intrecciate tra loro al fine di orchestrare un infido teatro di morte.
Era ironico il modo con il quale Claudius tentava di mantenere in piedi la sua reputazione da indomito proprietario di una della migliori compagnie informatiche del mondo. Aveva laboratori installati in grandi città europee e statunitensi, e i suoi più importanti progetti apparivano spesso negli articoli di numerosi mensili scientifici.
Ma Kyle sapeva perfettamente che questa messa in scena era stata montata per altri loschi fini: Claudius stava sfruttando alla lettera il significato del termine “nuova era tecnologica”. Scaltramente, il vampiro aveva compreso la dipendenza degli umani a ogni diavoleria moderna e, grazie all’infinita disponibilità economica accumulata nei secoli, aveva scommesso tutto ciò che aveva sulla fondazione della “Berkley Enterprises”.
Purtroppo la sazietà di Claudius era paragonabile a uno stomaco senza fondo. A detta di molte streghe nere agli ordini di Berkley, all’interno di quei laboratori il vampiro si occupava di faccende top secret, molto più ampie di comuni software. E Kyle aveva intuito di cosa si trattasse da quando si era infiltrato furtivamente in uno dei complessi costruiti anni fa a Parigi, molto facoltoso e seguito dal ricco vampiro. L’ambizione di Claudius era quella di forgiare creature ibride, unioni clandestine tra razze diverse, munite di abilità potenziate mediante l’ausilio delle macchine. Ma a che pro schierare orde di demoni mutanti contro un’umanità ciecamente inferiore? Era da escludere, visto che Claudius amava questo mondo così stupido da stimarlo e arricchirlo in modo inesorabile. Perciò, quale piano criminale si stava affacciando nelle mente corrotta di Claudius? Kyle non aveva delle risposte pronte. Non ancora.
Insinuatosi in un groviglio di strade illuminate fiocamente dalla luce dei lampioni, Kyle si soffermò a osservare la falce di luna, unica naturale attrazione, oscurata da una sezione di nuvole satolle che correvano a intermittenza, come se fossero inseguite da un demone vorace che inghiottiva i loro corpi fumosi.
Sentendosi senza peso come se fosse sospeso tra il Limbo e la luce del regno degli spiriti, camminò lungo l’ultimo marciapiede che lo divideva dalla villa di Claudius, che per Kyle era un’allegra dimostrazione di come un miliardario potesse trasportare pezzo per pezzo un castello di un’antica casata nobiliare dalle verdi colline della Scozia. Persino i loggiati e le balconate sembravano avanzare nella tenebra, e le lastre di vetro inglobate da finestre circolari erano annebbiate dal calore sprigionato dalle illuminazioni interne.
Kyle sospirò e bussò con decisione al portone centrale, un immenso blocco di legno nero come il mantello notturno senza stelle che macchiava quelle ore per lui infernali.
Un maggiordomo dalla testa calva e dall’espressione indecifrabile fece capolino sulla soglia e si scostò come se avesse intuito che Kyle fosse l’uomo atteso dal suo padrone. Il ragazzo non perse tempo nel chiedere di venire annunciato: detestava queste insulse baggianate a cui era abituato Claudius. Un incontro con il vampiro, anche se breve, era più che sufficiente, e Kyle non poteva perdere attimi preziosi dietro a colui che aveva rovinato la sua vita per sempre, stendendo acido e putridume sulla sua esistenza non più lieta come un tempo.
Entrò nello studio di Claudius con passo pesante, e serrò i pugni quando vide il profilo aquilino del vampiro, accomodato su una sedia a dondolo vicino a un camino dalle screziature di marmo bianche e beige. Le lingue arancioni del fuoco scoppiettavano come anime dannate e parevano invulnerabili all’azione dell’acqua che avrebbe potuto far cessare il loro ardore.
<< Kyle, benvenuto nella mia dimora. >> Con le mani congiunte all’altezza del viso, Claudius roteò gli occhi verso Kyle e accavallò le gambe con fare felino, come una pantera dai movimenti saettanti e squisiti.
Un umano, il famiglio di Claudius, con il collo scoperto e afflitto da un paio di morsi animaleschi, boccheggiava debolmente, inerme come un oggetto usato e abbandonato in un angolo. Le sue pupille erano diradate e le sue labbra sembravano comunicare una richiesta d’aiuto incomprensibile. Ma Kyle non faceva sconti per chi si offriva volontario per farsi prosciugare dai redivivi, consapevole dei rischi che comportava una simile offerta. Non era un suo problema.
<< Dimmi cosa vuoi…. e in fretta. >>, sentenziò il ragazzo, incollerito dalla vampata di Potere soffuso emanato dal vampiro, ancora più forte per via del fresco pasto.
Berkley rise spudoratamente e raccolse il mento tra le dita con un gesto sapiente. << Abbi pazienza, Kyle, e ben lungi da me trattare uno come te con disprezzo! Mi conosci. >>
Kyle chiuse le palpebre e prese un respiro profondo. << Sì, ti conosco. Ecco perché ti richiedo: cosa diavolo vuoi da me? >>
Claudius gli voltò le spalle e si perse nella contemplazione del candore del fuoco che dal camino si insinuava nella sua pelle morta ed insensibile a qualunque fonte di vita. << Come? Non dirmi che non l’hai ancora vista nella nostra amata città. >>
<< Non so di cosa tu stia parlando. >>
<< Ah, sì? >>. Il vampiro fissò Kyle con tale profondità da scuotere la terra e perforare la pellicola di un mare burrascoso. << Non mentire, Kyle. Sento il suo odore sulla tua pelle. Sulla tua mano. >>. Claudius sollevò il capo e seguì con il naso il percorso di un sentore a lui non ignoto, come un tossicomane che viene attratto da un’invitante striscia di cocaina. << Oh, sì, è proprio il suo odore. Beatrix Miller. Non sei contento, Kyle? C’è una nuova Incantatrice in città. >>
Kyle rimase in silenzio, con un dolore nascente che gli perforava gli addominali in modo disumano. << Perché la desideri? Non è pericoloso avere un’Incantatrice a Cloud Town, dove può vedere in prima persona i crimini di cui ti macchi? >>
<< Questo è l’ultimo dei miei problemi. E hai perfettamente ragione, ragazzo mio. La desidero, con tutto me stesso. Ma, stanotte, non sei qui per conoscerne il motivo. >> Claudius si distese sulla sedia per trovare una posizione più comoda e intrecciò le mani sul grembo. << Ma cos’è tutto questo rancore represso? Ce l’hai ancora con me nonostante sia passato più di un secolo dalla sua morte. Suvvia! Ho portato a Cloud Town l’incantevole Beatrix, la giovane Incantatrice più bella che mai. >>
Kyle controllò il suo Potere che riprese forma nel suo spirito inferocito come la leggendaria fenice che rinasce dalle ceneri della sua precedente vita. << Ti stai burlando di me? >>
Berkley sogghignò e sorrise malignamente. << Adoro farlo. E sappi che ti ho convocato nella mia dimora per due motivi: primo, volevo che sapessi del mio desiderio di possedere Beatrix con ogni mezzo necessario, e niente e nessuno potrà ostacolarmi, nemmeno tu; secondo, volevo rinfacciarti il ricordo della dipartita della tua amata e rafforzare la tua sofferenza. Le mie streghe hanno bisogno di nutrirsi con un po’ di dolore altrui per rafforzare i loro poteri. E poi dicono che non mi prendo cura dei miei dipendenti…>>
<< Non permetterò che tu faccia una cosa simile! >>, gli urlò contro Kyle che non riusciva più a trattenere il battito del suo cuore palpitante.
Non un’altra volta, non un’altra volta…, si disse il ragazzo sprofondando in una consapevolezza fin troppo evidente: Claudius avrebbe preso e posseduto Beatrix – uccidendola con molta probabilità, e così il suo tormento non avrebbe mai avuto fine. Per l’eternità.
Il suo Potere esplose come una bomba a orologeria in tutti i suoi canali fisici, straziandone le carni infiammate dalla sofferenza, dilaniando interi brandelli di ragione che ancora vagavano nella testa di Kyle sempre più vicina al collasso.
Quando capriole di fuoco bluastro si liberarono dalle sue braccia strette al petto, Kyle l’Incendiario ringhiò contro Claudius. Il vampiro, come un innocente spettatore d’opera, ammiccava ironico e si godeva la vista dei volteggianti effluvi di Potere demoniaco del ragazzo, che piroettavano violentemente nell’aria fendendo e lacerando quel che rimaneva della sua fievole umanità.

domenica 28 marzo 2010

Capitolo 8 - Via col vento




Era bagnato, ruvido e sporco.
Dappertutto.
Goccioline lucenti di rugiada ricoprivano piccoli ciuffi d’erba e imperlavano i capelli di Sonja sparpagliati su un prato inglese appena tagliato.
Il terriccio impastato dalla pioggia si spalmò sul profilo destro del suo volto, mentre il Gelo, destandosi, tentò di aprire gli occhi; ma una luce bianca, la luce del sole mattutino, la costrinse a ripararsi dai raggi incipienti che le si stagliarono contro.
La principessa socchiuse le palpebre prudentemente e si puntellò su un fianco. Ah…pessima scelta. Dopo la mutazione, i tendini dei polpacci rimanevano irrigiditi per ore, e ogni singolo movimento fu per Sonja uno sforzo olimpico. Trasse un respiro dopo l’altro, annegata nella sua agonia dilaniante.
Ma dove si trovava? Cosa le era successo?
Sperò che anche nel suo stato animale i sensi l’avessero guidata a casa, nel suo giardino, e non in mezzo a un centro commerciale affollato o a un parcheggio altrettanto ricolmo di umani come le era capitato parecchie volte negli ultimi sette mesi.
Tra i sfruscii delle foglie e lo zampillio scalpitante di una fontana in vicinanza, avvertì una presenza familiare.
<< Sonja, prendete le mie mani, così vi aiuto ad alzarvi. >> Era così rassicurante che Sonja si illuse di essersi smarrita in un sogno, o di giacere ancora nel suo letto avvolta nelle lenzuola, riposata e grintosa per una nuova giornata.
<< Ma come ti permetti! Rimani al tuo posto, Eoghan! >> Ne apparve un’altra, più incollerita e tirannica, che Sonja odiava con tutto il suo cuore, che disprezzava e malediva in nome della Dea…
Due parole: Artemisia Reynolds. La progenie del demonio.
La ragazza avrebbe voluto prendere le difese di Owen e dire a quella megera di chiudere la sua maledettissima fogna, ma ci pensò due volte prima di farlo. Offendere Artemisia, la guerriera più feroce della Corte del Sole e per di più la concubina preferita del re, significava firmare col sangue la propria dichiarazione di morte. Molti avevano sperimentato le loro lingue argentine su di lei, e Artemisia si era dimostrata tutt’altro che clemente e discreta.
Il suo aspetto, oltretutto, non faceva altro che invigorire la sua nomea da bond-girl: un corpetto di broccato nero che le stringeva il petto di per sé abbondante, una minigonna abbastanza corta da far intravedere reggicalze e biancheria intima in pizzo che di rado portava sotto, uno scomodo velo rosso con uno spacco a una coscia per formare un vestito conturbante e abbinato a un paio stivali alti fino alle ginocchia, due ventagli richiusi che usava come cerchi rotanti appesi a un laccio stretto in vita, e un anello d’oro, lo stesso di Sonja, con lo stemma della Corte del Sole forgiato su di esso, che riluceva alla tenue luce diurna. Il suo incarnato abbronzato, le sue chiome d’onice che volteggiavano intorno al suo viso da bambola, i suoi occhi blu come zaffiri e le sue labbra tumefatte non convinsero Sonja a cambiare l’opinione che aveva su di lei.
<< Owen non c'entra. Lascialo stare! >> Il Gelo mantenne i nervi saldi rimettendosi in piedi carponi. Nello svolgere l’operazione, scintille di ghiaccio cristallizzarono il terreno sotto le sue dita.
<< Owen… Owen! E da quando in qua usi questi nomi così volgari? Smettila con il tuo accanimento per gli umani e le loro fandonie! >> la rimproverò Artemisia accompagnando le sue sdegnose considerazioni con un riso freddo e sprezzante. Come poteva Atlas, suo padre, amare una donna così vuota ed egoista? Che fosse sotto il suo incanto malefico? Di certo Artemisia sapeva il fatto suo, ed era maestra nel compiacere gli uomini con il suo charm, ottenendo da loro attenzioni speciali a corte. Era una tipica femme fatale, dallo spirito libertino e intrigante.
<< A me non piacciono gli umani. >> controbatté Sonja, paonazza.
<< Bene, Gelo… Eoghan, porta la nostra principessa nelle sue stanze. La voglio pronta tra cinque ore, non un minuto di più. Oggi ci sarà un favoloso ricevimento con tutti i più importanti esponenti delle corti fatate. E Sonja non deve assolutamente mancare. Capito, servo? >>
<< Agli ordini, Artemisia. >> Owen, trafelato, fece un inchino sforzato, con l’unico pensiero di trafiggere più volte il petto di quell’impertinente non solo per il comportamento sfacciato rivolto al suo indirizzo, ma specialmente nei riguardi di Sonja. Difatti, Artemisia non era altro che l’amante del re, una delle tante, e per questo non gli era affatto superiore. Frattanto che questa convinzione portava la mano di Eoghan sul pomo della sua spada ancora inguainata, Sonja gli scoccò un’occhiata allarmata e scosse la testa con perizia nervosa.
Owen abbandonò le sue fantasie belliche e incrociò le braccia al torace brillo di furore battagliero represso.
<< Eoghan, dove è finito il tuo onore? Perché non vieni qui e mi prendi a calci, su! Un tempo ti piaceva. I nostri duelli erano sempre i migliori, a corte. >> Artemisia volse le spalle a entrambi con fare avvenente, consapevole del suo potentissimo glamour che si inspessiva tra i tronchi massicci degli alberi e i cespugli sferici e turgidi. << Ma Atlas sa riconoscere il buono quando lo vede, non ti pare? >> aggiunse ormai lontana, la sua silhouette nera vicina al portone del castello di pietra e nascosta tra le fitte fronde della vegetazione circostante.
<< Owen, non darle retta, fa di tutto per farti sentire inferiore, ma tu non ascoltarla.>>
<< Lo farò, principessa. >> Eoghan anticipò l’affettuoso consiglio di Sonja e piegò un braccio per offrirle i suoi possenti bicipiti come appiglio.
Soltanto quando due chiazze più rosate si formarono sugli zigomi prominenti di Owen, Sonja realizzò di avere addosso un leggerissimo scialle satinato, probabilmente portato da Artemisia dopo il suo atterraggio in volo, da cui erano visibili le squisitezze di una giovane donna nel pieno dei suoi anni. L’attenzione bruciante di Owen risalì dalle sue gambe alle dolci colline del suo petto, non tralasciando nulla, neanche la cavità del suo ombelico scoperto.
Il cavaliere incontrò lo sguardo di Sonja, che era agitata da una moltitudine di domande che un solo corpo non avrebbe mai potuto contenere. Si limitò a porgerle una mano sul collo e a cingerle le spalle per portarla in braccio più facilmente, come due neosposini umani che varcano la soglia di casa per la prima volta. Solo che Owen lo faceva perché credeva che la sua principessa non avesse Potere a sufficienza per sostenersi.
Mai sottovalutare il Gelo.
Sonja si rialzò rifiutando l’aiuto di Owen e corse con un nodo in gola oltre l’illustre padiglione del suo giardino, schizzando sul selciato del vialetto tra aiuole in fiore e arbusti secolari che solcavano la terra con le loro profonde radici.
Da sola.


<< Principessa, si giri. Devo finire di rammendarle le maniche del vestito. >> Bausee, la sarta di corte, aveva realizzato una favolosa opera d’arte quella mattina. Era convinta di aver dato alla luce più un pargoletto che un abito di eccelsa manifattura. E forse aveva proprio ragione. Quello di Sonja era un vestito verde perla di stile imperio, lungo fino alle caviglie, con bordature ricamate che circondavano il vitino sottile di Sonja e con delle finissime catenine come spalline. Presentava motivi floreali sulla gonna e graziosi merletti alle maniche vaporose. A ogni suo passo, il Gelo sentiva frusciare il taffetà che si gonfiava come se ci stessero soffiando del vento dall’interno.
<< È perfetto, Bausee. >> disse Sonja dall’alto del piedistallo su cui si trovava, di fronte allo specchio dorato della sua stanza, fissando quella strana figura riflessa in cui lei non si riconosceva.
<< Ma non è ancora finito … e voi dovete essere dal re tra quindici minuti! Per la Dea, non riuscirò mai a finirlo in tempo! >> Bausee tagliava il filo e infilava l’ago nel tessuto con gesti convulsi, come una forsennata, ignorando le esclamazioni di Sonja ogni qualvolta che la sarta le pungeva un dito o le tranciava un gomito.
Bausee conosceva Sonja sin da piccola, con la sola differenza che lei aveva avuto meno fortuna della principessa, essendo nata da una famiglia plebea della Corte del Sole. All’età di undici anni era stata venduta al re, commosso dalla bravura della ragazza di tessere le stoffe e cucire vestiari pittoreschi.
Tuttavia, lei era una delle poche persone che Sonja vedeva entrare e uscire indisturbati dalla sua stanza, visto che copiosi banchetti ed estenuanti andirivieni erano sempre all’ordine del giorno, e per volere di Atlas, Sonja doveva indossare qualsiasi cosa che la facesse brillare come un diamante al sole. Era la legittima erede al trono, nonostante fosse figlia di una sidhe uscita fuori di senno subito dopo la sua nascita. Sua madre, si diceva, aveva sofferto molto durante la gravidanza e, come succede a molte donne umane, era entrata in depressione post-parto, e non aveva mai voluto stringere tra le sue braccia la nuova nata. Aveva promesso ad Atlas di dargli un figlio maschio forte e sano; invece, vedendo uscire dalla sua pancia una bambina urlante con una zazzera bionda appena accennata sulla testa e con poteri caratteristici dei sidhe della corte rivale, si sentì irrealizzata e indegna del suo titolo, e così, dopo qualche anno, abbandonò la corte di Atlas per sempre. Come avesse passato i suoi ultimi giorni prima di togliersi la vita rimaneva un mistero, ma il re non ci mise tanto a rifarsi dalla sua perdita. Aveva provveduto a rimpiazzare la precedente regina con altre giovani dame di sangue blu, graziose e attraenti quanto bastava, con risultati spiacevoli. Sonja era l’unica figlia che aveva avuto in matrimonio e questo faceva di lei il suo fatale tallone di Achille: chiunque, sposando la principessa, poteva avere accesso al governo della Corte del Sole, e diventarne il capo supremo. Ecco perché quel ricevimento infastidiva Sonja, e non di poco: suo padre le aveva procurato uno sposo degno di lei e del regno? Se sì, chi era il fortunato?, rifletté la principessa mordicchiandosi il labbro inferiore. Ma la domanda vera era: lei lo voleva veramente? E cosa avrebbe detto Owen?
Per la Dea, Owen…
Sonja non aveva fatto altro che pensarci, e dalle sue mani continuava a sgorgare sudore caldo e incontrollato. Ma non doveva farsi strane idee. Owen era la sua infallibile guardia del corpo, generato per brandire la sua spada assassina, non per provare qualcosa di più di una semplice amicizia per lei, principessa della Corte del Sole, “Il Gelo della torre dorata”.
<< Bausee, conosci per caso il motivo per cui Atlas ha organizzato questo ricevimento? >> chiese Sonja speranzosa e confidando nella proliferazione dei pettegolezzi che, una volta tanto, potevano ritornarle utili.
<< Se mi permettete, principessa, preferirei tacere su questo argomento. Atlas non perdonerebbe questa mia debolezza se vi rivelassi troppi particolari sull’evento. >> Bausee, nel contempo trillante e affaccendata, scosse il capo con vigore, facendo oscillare i suoi riccioli, e si accinse a modellare una cintura con piume di pavone cascanti che spiccava per il suo verde più scuro della veste, da sistemare comodamente lungo i fianchi della principessa.
Con un’espressione impensierita, Sonja fece una smorfia di delusione che contornò la sua bocca di ciliegia, quando sentì bussare alla porta con due sonanti colpi.
Il grido di battaglia di Artemisia.
<< Bausee, esci fuori. Devo parlare in privato con la nostra principessa. >> Il suo tono esigente e dittatorio risuonò con tutta la sua impetuosità tra le spesse pareti della stanza, nonostante la feroce donna non vi aveva ancora messo piede.
Il Gelo avvertì il suo sangue trotterellare come un dissennato, mentre il suo sguardo si volgeva ad est, oltre l’enorme finestra balaustrata, dove una dilettevole brezza di vento portava con sé i profumi autunnali e raccoglieva i resti di poveri germogli non sopravvissuti alla bufera notturna. Ogni petalo strappato, ogni stelo leso conservava una vita troncata sul nascere, un irreparabile segno di come la natura fosse generosa e crudele con le sue creature mortali. Alcuni di essi di posarono sul davanzale marmoreo, come a cercare un luogo riposante per distendersi immobili.
<< Sonja, mi senti o no? >> Artemisia ricoprì la visuale con le sue belle forme, il sopracciglio triangolare all’insù, rigido. Erano completamente sole, lei e Sonja, e di Bausee non rimaneva altro che il suo formidabile set da lavoro.
La principessa scese dal piedistallo e lisciò la parte inferiore del vestito, evitando che l’orlo dell’abito sfiorasse il pavimento pieno di fascette di pizzo tagliate via dalle bordature. Non voleva discutere con quell’arrogante di Artemisia, benché il suo volto fosse già posto sugli accurati fronzoli delle sue maniche. Con noncuranza, la scansò e socchiuse gli occhi candidi da cui traspariva la completa consapevolezza che ciò che la guerriera stava per dirle non sarebbe stato molto piacevole. Che Artemisia godesse nell’annunciare notizie infauste, era evidente dall’elettricità che emanava il suo corpo longilineo.
<< Siete pronta per il grande passo, principessa? >> domandò maliziosa Artemisia, le iridi violacee che guizzavano come due teste di cobra.
Sonja rilassò le spalle in un gesto di studiata grazia. << Allora è vero. Mio padre ha trovato qualcuno che… >>
<< … che possa starti vicino senza morire assiderato, sì, purtroppo, sì. >> disse Artemisia mettendo a dura prova il suo assenso per la decisione del re.
Sonja non credeva di poter sopportare ancora per molto la sua finta devozione, così ridicola e insensata.
Come se la brama di Artemisia di ricoprire il posto a fianco di Atlas - che sicuramente non avrebbe mai avuto - potesse significare qualcosa per lei.
La ragazza lasciò scorrere nella sua mente le immagini delle casate più facoltose del mondo fatato. Ma, dacché Sonja conosceva a memoria le facce di tutte le fate della Corte del Sole che il padre le aveva proposto tempo addietro, era alquanto impossibile supporre che il re avesse scelto proprio uno dei suoi ex-candidati, risultati troppo deboli per resistere al Potere della principessa senza rimanerne sotto shock o addirittura morti. Quindi, l’unica soluzione era che il futuro sovrano fosse un membro della Corte Oscura, dalle capacità analoghe a quelle del Gelo.
<< Sonja, hai capito benissimo. Tra due settimane sarai maritata, e nientemeno che con il principe Nathan, figlio di Kaamos e Izabel, i sovrani oscuri. E devo dire che il giovanotto è rimasto molto impressionato dal tuo aspetto e dalle tue risorse. >> confermò Artemisia con un ghigno disegnato sulle labbra.
<< Nathan... mai sentito. >> rimbeccò Sonja, fingendo indifferenza a quell’annuncio che nel frattempo le aveva procurato un grave tuffo allo stomaco.
<< Devo ammettere che Atlas ha saputo vendere sua figlia a buon mercato. E poi dicono che siamo noi della Corte Oscura a essere infimi. >> Artemisia fece un giro su se stessa, sedendosi su una panca lignea a destra della toletta di Sonja, vicino alla porta dello stanzino comunicante. << Oh ti prego, non piagnucolare! Ti si scioglierà il trucco e non sarai presentabile al banchetto. >> puntualizzò aspramente - ogni parola sagacemente calibrata per versare litri di veleno tossico su Sonja. Rilassandosi con un gemito esagerato, si limò le unghie con un coltellino cacciato dal fondo del corsetto, in mezzo ai seni.
<< Mio padre non è meschino! Se è arrivato a fare una simile decisione, è solo perché i sidhe maschi del mio regno mi temono per quello che faccio, e non mi toccherebbero nemmeno con un dito, neanche per farmi una riverenza! Questa non è cattiveria, Artemisia! >> gridò Sonja scossa da tremori incalzanti, dalla testa ai piedi, mentre l’aria intorno a lei era sempre più fredda e i suoi sospiri si tramutavano in nuvolette di vapore bianco.
<< Allora non capisci, Sonja. Ti ha condannata! La tua maledizione con Nathan non si spezzerà! Diventando sua moglie, non penserà certamente a te, anzi, sfrutterà il doppio Potere che dimora nel tuo corpo. L’aquila e il Gelo. Una vostra unione genererà il sidhe più potente che sia mai esistito, e Nathan non è un guerriero dal cuore puro e non ti può salvare. Così come Akarin, Sinclar, Fingas e tutte le guardie regali, Eoghan compreso! >> ringhiò Artemisia gesticolando rabbiosamente, con le vene del collo così pompate di sangue da fuoriuscire dalla sua pelle scura.
Sonja si resse alla colonna tortile del baldacchino, trattenendo le lacrime che le punsero le punte degli occhi. << Conosco la fattura che mia madre mi scagliò quando compii otto anni. Se le apparivo un essere contro natura e portatore del gelo invernale, tutti dovevano vedermi così. Non una sidhe del Sole, né una donna che può godere del calore di un uomo, ma un abominio. Mia madre volle condannarmi per farmi capire che in un modo o nell’altro sarei stata la causa non solo della mia infelicità, ma anche del mio regno di luce. Però diventare un animale non mi pesa più di tanto, Artemisia. Ho imparato a convivere con la mia bestia, o almeno ci provo. È il gelo che non mi lascia via d’uscita e mi fa soffrire, e non mi permette di... amare qualcuno senza che questo ci rimetti la salute. >>
La donna appollaiata di fronte a Sonja sollevò lo sguardo aggiungendovi una parvenza di impazienza. << Non ti illudere, principessa. La maledizione dell’aquila non è una cosa da niente. Il corpo di una fata non può tollerare due presenze contemporaneamente, e prima o poi si arriverà a una scelta: o tu o la bestia. Dipende da chi resisterà e sopravvivrà senza venire espulso. >>
Sonja strinse un lembo della sua veste stritolandolo e congelandolo tra le piccole dita. << No… >>
<< Sì, Sonja cara. >> Sul viso di Artemisia fece capolino un sorriso genuino. << Per liberarti del maleficium sarebbe opportuno bere il sangue di un combattente puro. Effettuare un Sodalizio di sangue. Ma è praticamente impossibile trovarne uno anche tra i cacciatori umani, di questi tempi. E se sposerai Nathan, il principe non ti farà certamente andare alla ricerca del tuo donatore. E ricorda che la sabbia del tempo continua a scorrere: sono già passati quindici anni dalla tua prima trasformazione, e sei a uno stadio avanzato. Se il tuo corpo selezionerà lo spirito predominante tra te e l’aquila, e sventuratamente tu dovessi perdere, avrai un’emorragia interna, collasserai e molto probabilmente morirai, tesoro. >>


Sonja sentì le sue gambe farsi pesanti, la testa girarle in tondo, i piedi troppo instabili per mantenerla in equilibrio.
Ecco, adesso si spiegava il perché di molte cose. Atlas aveva organizzato quell’incontro per far accelerare le pratiche del matrimonio, prima che scadesse il tempo, prima che Sonja…
<< Morta. >> sospirò la principessa con alcuni drappi della veste stretti in un pugno.
Respirò trangugiando lunghe boccate, come se l’ossigeno fosse l’unico elemento che la facesse mantenere in contatto con il mondo presente. << Artemisia, togliti dalla mia vista. >>
<< Sonja, ho solamente detto la verità. Il tuo corpo dovrà scegliere, ma solo dopo aver messo al mondo il nuovo erede…>> provò a spiegare Artemisia che intanto si era spostata alle spalle di Sonja.
<< Va-via! >> Il Gelo scandì bene le parole riversandoci tutta l’acredine e la frustrazione che erano rimaste celate a lungo nel suo cuore.
<< Come vuoi, ma sappi che io posso aiutarti. >> La guerriera guardò di sbieco Sonja, coprendo con un gesto fulmineo metà del volto, nascosto da una cascata di capelli neri come petrolio.
<< Desideri essere la nuova regina, bene, accomodati. Fallo pure! Preferisco morire come un cane, ma non far passare a mio figlio una vita di stenti e sofferenze, neanche se ciò significasse negargli grandi poteri! E adesso lasciami sola, Artemisia.>> Il Gelo si massaggiò la fronte facendo un’accurata pressione nella parte centrale e si pose sul materasso alto fino alla cintola.
Artemisia, senza esitare, abbandonò il terreno fecondo su cui aveva seminato il suo seme maligno, priva di rimorsi e dispiaceri, e non sbatté la porta come era il suo solito. L’accompagnò dolcemente e si smaterializzò in un istante.
Sonja lasciò che la sua disperazione sopraggiungesse, e si gettò a pancia in giù sul letto, battendo a più non posso i palmi delle mani sui cuscini rigonfi.
Non doveva andare in questo modo, non è giusto, non è giusto!
In un attimo Sonja vide un'ombra oscurarle il viso, e i suoi singhiozzi furono smorzati da un sfioramento quasi impercettibile che la principessa avvertì sulla sua testa e sul nervo sensibile del suo collo.
Si ritrasse di scatto, ritrovandosi un mento pronunciato, un paio di occhi fieri e delle labbra piene così vicini da sentirne il calore scottante sulla pelle.
<< Owen, cosa ci fai qui? >> lo sollecitò lei, perplessa, mentre Eoghan scorreva la linea ovale del volto della principessa con la stessa accuratezza che si usa per sfogliare antichi manoscritti dalla pagine friabili.
<< Vi ho sentita piangere, e poi ho visto Artemisia uscire dalla stanza. >> Owen indossava un’austera divisa militare, composta da pantaloni celesti stretti al polpaccio e una giubba costellata da rifiniture auree e bottoni d’oro perfettamente rotondi, che si accordava a una coccarda ricavata da un semplice velo bianco. I suoi capelli erano così simili alle sfumature della giacca da sembrare un effetto voluto appositamente per elogiare la sua bellezza graffiante.
Sonja mise a fuoco, e realizzò che le evidenti chiazze rosa di Owen non erano niente in confronto alla brace che ardeva le sue gote delicate.
<< Non è successo niente di preoccupante. Artemisia è la solita spaccona, ma con me non l’ha vinta. >> sorrise sterilmente, ma non con gli occhi. E Owen parve accorgersi della differenza.
<< Non avevo dubbi. >> Eoghan si fece più vicino, però non quel tanto da permettere un approccio più aderente dei loro corpi. Rimaneva il solito galantuomo pronto a lasciare i giusti spazi alle altre persone. Un lato di Owen che Sonja aveva sempre ammirato.
<< Ci sarai anche tu, vero, al ricevimento? >> azzardò Sonja mettendosi seduta con la schiena schiacciata sulla tastiera del letto.
<< Ovvio. Atlas ostenta sempre le sue forze militari, quando può. >> Owen stette accanto a lei, soffermando lo sguardo sulle onde dorate dei capelli di Sonja, che le dondolavano sul mento come scosse da un soffio d’alito e le davano un’aria così innocente, fanciullesca e sconsolata.
<< Non sei mai stanco di tutto questo? >> intervenne lei, allargando le braccia per alludere agli sfarzosi ornamenti che abbellivano la sua stanza. << Non vorresti vivere senza queste insulse cerimonie e falsità, come... come un mortale? >>
Owen rimase stizzito dalla sua domanda. Vivere come un mortale significava passare un’esistenza breve, effimera e insapore. Ma da un po’ questa prospettiva ballonzolava nelle sua mente, a condizione che un simile stile di vita fosse condiviso con qualcuno per cui valeva la pena sacrificare l’eternità di cui gode il popolo fatato.
<< Sì, me lo sono chiesto, a volte. >> rispose lui, rimanendo vago sul dove e sul quando.
<< E quale è stata la tua risposta? >> Sonja pendeva dalle sue labbra, con un luccichio folgorante nei grandi occhi celestini, come una fanciulla assetata di conoscenza che non fa altro che chiedere il perché delle cose che vede e assapora.
Ma vennero interrotti da Bausee che si precipitò dentro con gli attrezzi da cucito in mano. << Principessa, dobbiamo completare il vostro abito. Si rimetta sullo scalino. Presto. >>
<< Non c’è ne bisogno, va benissimo così. >> affermò Sonja con serenità.
<< Ma come...? >> Bausee, mummificata, aveva le braccia sospese come per disegnare gli ultimi ritocchi su una tela invisibile e la sua bocca aperta per lo sconcertamento ci mise un minuto buono per richiudersi nuovamente.
<< Vi aspetto fuori, maestà. >> Eoghan camminò con movimenti fluidi e lenti, ripercorrendo il mosaico monumentale che impreziosiva l’ancestrale foggia della pavimentazione.
Quando anche la sua sarta di fiducia l’ebbe abbandonata, Sonja si poggiò su una sedia di vimini di fronte al suo comò di legno massello. Serrò le palpebre e scalciò l'aria con i tacchi dei suoi decoltè di raso argentato.
Di una cosa era sicura, comprese saggiamente. Era ora di scegliere.
Disponeva di due possibilità: sposare il principe, procreare un erede e attendere una lenta, logorante morte - se l'aquila l'avesse sconfitta -, o rinunciare al trono di suo padre, tradendo così i suoi simili e la loro fiducia, ma vivere intensamente, approfittando dei meticolosi vantaggi che l'universo intero aveva da offrirle. Come in un film, voleva essere la protagonista della sua storia, non un personaggio secondario, insignificante e senza spina dorsale. Sonja pregò che qualcosa di straordinario le stravolgesse la vita. Completamente.
Sua madre si sbagliava se reputava Sonja una persona debole e incapace: la principessa era ottimista dentro, nei suoi recessi interiori che solo apparentemente erano appannati da una patina di ghiaccio infrangibile.
Era pronta.
E se proprio doveva andare a morire, be', la cosa migliore era farlo con eleganza.

Scevra da ogni paura, Sonja percorse l’infinito corridoio nell'ala orientale del castello, a passi più decisi. Il suo viso, cosparso da una velatura di speranza, venne illuminato da una gamma di colori alternati tra un arancione acceso, un blu cobalto e un rosso pelvico, provenienti dalle vetrate che scandivano ordinatamente le mura.
Da queste filtravano raggi di luce sconnessi e sventolii d’aria penetravano da sotto le imposte.
L’unica risonanza che Sonja percepiva era il frusciare della gonna mentre toccava terra e il tintinnio degli orecchini a perla che indossava.
<< Sonja, lascia che ti accompagni. >>
Accidenti, Artemisia era proprio incorreggibile!
<< Oh, non è necessario. Dopotutto è la principessa che la corte attende, o no? >> la apostrofò Sonja non rinunciando alla sua camminata orgogliosa e composta.
Artemisia non interloquì. Seguì Il Gelo fino a giungere alla maestosa apertura arcuata della sala regale, che si trovava esattamente dall’altra parte della costruzione, in corrispondenza del punto in cui il sole si innalza nel cielo nella sua più smagliante forma.
Definire il salone mastodontico forse non era sufficiente. Se un artista volesse rappresentare il Potere della Corte del Sole con un immagine ben precisa, allora basterebbe contemplare il luminoso scranno su cui Atlas sedeva, circondato dalle folte capigliature e dalle carnagioni translucide dei sidhe lì presenti.
Qualche verseggiatore dilettava con le sue liriche l’immaginario di alcune giovani fate che si abbandonarono sulle poltrone, incantate da quella melodia; musicisti abili armeggiavano con i loro strumenti a corda, i cui ripetitivi accordi saturarono le orecchie della principessa, stanca della loro solita nenia; rimaneva solo il pettegolezzo come passatempo ultimo, preferito dal resto degli invitati.
Le loro attenzioni magicamente si rivolsero su Sonja, non molto contenta di non passare inosservata come avrebbe voluto.
<< Figlia, era ora. >> Il timbro severo del re presagì un rimprovero per la mancata puntualità di Sonja.
<< Scusate, padre. >> Il Gelo si inchinò in segno di rispetto ad Atlas che tiranneggiava su di lei con la sua ponderosa stazza. La sua tunica argentea stretta da una doppia fascia intorno alla pancia gli conferiva più fierezza mentre si alzava dal suo trono di marmo bianco.
Il re andò incontro alla figlia per accompagnarla al tavolo degli commensali.
C'era una certa somiglianza tra Atlas e Sonja che, secondo molti, era la copia esatta della madre, mingherlina e garbata negli atteggiamenti, anche se non dello stesso livello di cattiveria che la precedente regina aveva mostrato di avere a spese di Sonja.
Artemisia si fece scura in volto non appena si accorse della benché minima considerazione che il suo amante aveva su di lei.
Ma prima, Atlas presentò Sonja ai più rilevanti ambasciatori della Corte Oscura, tutti in abiti eleganti e monocromi in contrasto con la loro pelle mortalmente pallida. Sonja fece lo sforzo di sorridere ad ognuno di loro e di ricambiare i complimenti fatti alla sua persona.
<< Siete davvero splendida, maestà. >>
<< Onorato di conoscerla. >>
<< La Dea è stata molto generosa con voi, Atlas, vi ha donato una figlia meravigliosa. >>
Parole. Solo parole smielate, a cui Sonja rispose con un timido cenno del capo.
La principessa mandava furtive occhiate all’orologio appeso in sala per verificare quanto a lungo sarebbe perdurato il suo supplizio. Dov’era Owen? Perché avevano mandato Artemisia come sua scorta?
Come attirato dalle sue elucubrazioni mentali, Eoghan, in piedi al margine della sala insieme agli altri guerrieri, cercò il suo volto con impazienza, nello stesso istante in cui Sonja si girò verso di lui. Le loro espressioni di intesa fulminarono l’area che li separava come lampi di luce che si confondono nel buio di un palco. Con un movimento labiale, Sonja lo pregò di accostarsi a lei, sostenerla come aveva sempre fatto. Aveva bisogno della sua guardia del corpo che normalmente le era accanto, giorno e notte, ora come non mai. Non appena Owen stava per raggiungerla, Sinclar, il suo miglior confidente che gli rimaneva secondo solo nella spada e nelle forza dei muscoli, gli strinse un braccio per indurlo a fermarsi. Non doveva intromettersi.
Sonja inspirò delusa, guardando con un misto di severità e comprensione le due guardie reali.
Quando le presentazioni furono terminate, un’androgina figura si avvicinò alla principessa, dissipando l’agitazione di Sonja non più robusta e invalicabile.
<< Alma Mater… finalmente ci incontriamo. >> Alma Mater era il titolo ufficiale di “Amata Madre” o “Regina Suprema”, che valeva per entrambe le corti. Un titolo che Sonja non ancora rivestiva.
<< Suppongo che voi siate Nathan. >> dedusse il Gelo inclinando il viso e un piede e salutando cortesemente il principe che ammiccava in tutto il suo splendore. Non vide, però, i regnanti oscuri spadroneggiare nella sala, presumibilmente assenti per qualche imprevisto burocratico, pensò.
Molto strano.
Nathan le prese una mano, affondando un labbro nella morbidezza della pelle di lei con un lieve, temporeggiante bacio. Il suo tocco emanava una leggera sensazione di neve fresca sulle nocche di Sonja, a cui la principessa era costantemente abituata perché i suoi pori cacciavano quello stesso e intenso viluppo di aria invernale. Faceva parte del suo Potere, dopotutto.
<< Ho desiderato questo momento da molto tempo, Sonja. >> Nathan si alzò nelle spalle, restituendo la mano alla sua legittima proprietaria.
Lei non poté non avvampare, vistosamente, per poi riprendere il coraggio di continuare un discorso razionale. << Credo, Nathan, che di tempo ne avremo tanto… per conoscerci meglio. >> Per inciso, Sonja non aveva alcuna intenzione di approfondire questa conoscenza, ma cosa poteva fare altrimenti? Il Gelo sapeva bene che accontentare e ammaliare il proprio interlocutore è una delle regole cardine del consorzio civile.
Nathan era un giovane piacente, trasgressivo a modo suo, poiché si era rifiutato di incorniciare il suo corpo con un ammasso di stoffe pregiate, adatte alla sua condizione sociale, preferendo un comodo frac nero. Forse trascorreva gran parte delle sue giornate in superficie, tra gli uomini, così a lungo da riprenderne le normali consuetudini. La sua coda era di un biondo platino molto lucido da sembrare una criniera bianca infittita da innaturali nervature d’argento.
<< Ebbene, >> si intromise Atlas con la sua voce possente, << ora che tutto è compiuto, Sonja e Nathan >> proclamò afferrando i loro polsi << sono lieto di annunciare… >>
<< Un matrimonio! Oh, le mariage est une chose impossible et pourtant la seule solution. >> Un isterico battere di mani fece trasalire Sonja, colta alla sprovvista da quel clangore fastidioso.
Le guardie si ammassarono all’unisono intorno a quello strano individuo, tra cui anche Artemisia, che spalancò le braccia come una danzatrice di tango, i suoi ventagli aperti a mezzaluna. Bastava una semplice torsione e addio per sempre al misterioso intruso che, per niente impressionato, esclamò con voce melliflua: << Ma Atlas, non vorrai concedere una simile accoglienza a un tuo ospite. >> conseguì aprendo le mani in un gesto trionfale.
Sonja, impettita, si fece strada tra i guerrieri insieme ad Atlas, alzandosi sulla punta dei piedi per vedere al di là delle teste degli uomini molto più alti di lei.
<< Claudius Berkley…>> tartagliò il re con somma meraviglia.
<< Atlas, ne sono passati, di anni. >>
<< Claudius… non ritengo che questo sia il momento giusto per una conversazione. Non adesso. >> La bocca del re era ridotta a un taglio netto e raggrinzito.
<< Suvvia! Non si abbracciano i vecchi amici? >> Sonja non riuscì a scorgere quell’uomo, il vecchio amico del padre, a parte la punta del suo scalpo appena visibile da quella distanza. Notò che Atlas gli stringeva rigorosamente una mano così alabastrina da far emergere le vene blu del polso.
<< Sono venuto qui, amico mio, per darti una notizia, a dir la verità, molto… sconcertante, che potrebbe interessare tutti voi, signori. >> annunciò portando la sua voce all’apogeo della promiscuità.
Sonja, scavalcata l’ultima guardia reale, per poco non indietreggiò bruscamente. Ciò che si ritrovò davanti non era un sidhe, né qualunque altro essere che si sarebbe mai aspettata di vedere. Non era persino umano.
Era un vampiro. Di giorno. In piena luce solare.
I suoi pensieri frammentati erano troppo veloci per poterli razionalizzare meglio, mentre il lord ricambiava il suo interessamento.
<< Principessa Sonja, che piacere incrociare il vostro sguardo. >> I suoi occhi verde oliva, la sua mascella rotonda e l’intenzionato accenno di barda che racchiudeva quel suo sorriso inumano, misero in subbuglio lo stomaco di Sonja, che non resistette all’istinto di coprirsi le narici che venivano perforate dall’odore muschiato del vampiro. Claudius ne intuì il motivo e sorrise accondiscendente.
<< Che ci fai a corte? Non immaginavo che ti fossi fermato a San Diego. >> Atlas si portò un dito sotto il mento, fissando serio il signor Berkley.
<< Oh, ma certo. Non intendevo interrompere la cerimonia. Avevo degli affari urgenti in città e ho accompagnato mia figlia Alexis a fare spese importanti. Eh, si fa di tutto per accontentare le proprie figliole. >>
<< Alexis… da quel che ho visto sul New York Times e sul Cosmopolitan, la tua pupilla splende ogni giorno di più. >>
Berkley abbracciò la sala con un agghiacciante sguardo. << Eh, sì. È diventata una vera signorina… Orbene, passiamo alle cose essenziali. >>
Atlas tese attentamente l’orecchio.
<< Forse saprai del colpo di stato contro la Corte Oscura promosso da una certa Sheila… Sheila Reynolds, se non vado errando…>> Berkley assunse un'espressione titubante, pensosa, aggravata da un’aura di serpeggiante malignità.
<< Sì, ne sono accorrente. Kaamos non ha potuto presenziare al fidanzamento di suo figlio, pur di sistemare la situazione. Ma mi ha assicurato che ciò non avrebbe interferito con tutto il resto. Con Sonja e Nathan. >>
In Claudius baluginò una fiammata di soddisfazione. << La veridicità dei fatti molto spesso viene distorta da chi racconta la storia a modo suo, mio caro Atlas. >> Socchiudendo le palpebre, dischiuse le labbra non mostrando la lunghezza dei suoi canini sporgenti, coperti chissà come da un'articolazione particolare del viso. << Sheila aveva dei contatti anche qui, nella Corte del Sole. E credo che non lo sappia nessuno, neanche Il Cacciatore. Hai dunque dei traditori in mezzo a te, Atlas. >> concluse sistemandosi su una scricchiolante seggiola in noce.
Bisbigli sommessi degli altri sidhe, sia servi che nobili, riempirono il silenzio, incitando Atlas a rispondere con un impotente “Silenzio!!” per calmare quello stupore indomabile.
<< Con tutto il rispetto, ma non ti permetto di fare simili insinuazioni. Non puoi prenderti confidenze tali da sconvolgere la mia gente in questo modo! >> sibilò snervato, una volta taciuto il trambusto generale.
<< Atlas, io non sono altro che un umile vampiro! Ti sto semplicemente mettendo in guardia prima che i responsabili possano colpire anche la tua sicurezza. >> puntualizzò Claudius accavallando le gambe, le dita ben aggrappate alle teste arricciate dei braccioli. << In passato ho già chiuso un occhio per tutti quei sidhe della tua corte che hanno invaso il mio territorio senza preavviso. Cosa che, ad essere sincero, mi ha molto infastidito. Quindi, spero che vorrai ricambiare questa mia cortesia, in nome dell’amicizia che ci lega. >>
Spostatasi trasversalmente, Sonja vide che Berkley era davvero un uomo affascinante, sulla quarantina, o perlomeno era quella la probabile età che aveva quando venne trasformato. Sotto un trench Burberry sbottonato, il lord sfoggiava una fusciacca rosso tiziano, dei pantaloni di marca costosa e un paio di scarpe lucide e di recente acquisto. Le marcature sporgenti del suo volto, intagliato da corti capelli castano scuro, attirarono come un magnete gli occhi azzurro cielo di Sonja.
<< È un ricatto? Come osate solo pensare di minacciare mio padre? >> Quell’imprecazione le uscì spontanea, imbrattando la sala con il suo Potere di ghiaccio. Molte fate, rabbrividendo, si ritrassero, scandalizzate dall’inaspettata eloquenza della timida principessa che sembrava più una leonessa coraggiosa che un leprotto in procinto di scappare dal suo predatore.
<< Sonja!! >> la ammonì Atlas.
<< Vi ammiro, principessa, la vostra tenacia farà di voi una perfetta regina, un giorno. Avevo immaginato che avreste cacciato gli artigli, se necessario. Ma ahimè…esigo parlare con vostro padre per discutere di questioni private. Subito. >> Claudius, con le pupille spente da ogni emozione, si rizzò passeggiando sulle mattonelle bianche e grigio fumo, grandi quanto una scacchiera per giganti.
<< E sia. Figlia, Nathan, con permesso. >> Il re si diresse fuori dall’arcata d’ingresso, aspettando che Berkley lo seguisse.
Invece Claudius si arrestò vicino ad Artemisia, che lo squadrava dall’alto verso il basso con un senso di disgusto disegnato in faccia.
<< Però...sei più lungimirante di tua sorella Sheila, nonostante il carattere da odalisca sia sempre lo stesso. >>
La guerriera gli si parò davanti, i pugni tremanti dall’impulso di agire. Allorché il vampiro si voltò strascicando un piede, scomparendo in un flash biancastro come quello di una macchina fotografica ottocentesca.
Teletrasporto.
Sonja trovò il suo cavaliere dietro di sé e seppellì la fronte nel collo di lui, aggrappandosi alle sue dita callose.
<< Ma chi è? >> chiese immediatamente ad Artemisia, non lasciando il corpo di Owen. La concubina di Atlas, muta e inflessibile, mirava i suoi occhi da gatta verso quel riflesso ancora percettibile e malsano. La scia di Claudius.
<< Lord Berkley è un vampiro molto forte, Sonja. Era amico di tuo padre sin da quando Atlas era solo un principe. >>
Il Gelo insistette spintonandola da lato. << Non hai risposto alla mia domanda. Lui chi è? E cosa vuole dal re? >> ripeté Sonja puntando un dito nella sua direzione.
<< È un multimiliardario proprietario della Berkley Enterprises, una compagnia che si occupa di sistemi informatici e ricerche sperimentali nel campo della nanotecnologia. Vive a Cloud Town, il centro infernale più noto al mondo. È lì che ha accresciuto il suo Potere e, sinceramente, non ho la più pallida idea di cosa voglia da Atlas, principessa. >>
Sonja sentì raggelarsi il sangue.
Eoghan la sospinse via dal guazzabuglio che era diventato il ricevimento del suo fidanzamento. Lei non fece caso a Nathan che si incupì quando intravide il braccio di Owen che la stava stringendo calorosamente. Il principe oscuro fece per avvicinarsi, ma ci ripensò bevendo del vino da un boccale di cristallo.
<< Owen…dove mi stai portando? Fermati! >> Usciti dal salone, il Gelo non riusciva a respirare e le gambe appesantite stavano per cederle. Eoghan lasciò due minuti a Sonja per riprendere fiato, e poi la avvertì contrito: << Principessa, venga con me. E non mi faccia domande. >>
A quel punto Sonja sbottò furiosamente. << Non mi muovo se non mi dici cosa sta succedendo! >>
<< La corte non è sicura. >> Owen, rigirandosi, faceva attenzione ai singoli cambiamenti del vento e a ogni minimo, dannato rumore.
<< Mi stai innervosendo! >> La principessa si tolse la cintura che le bloccava la normale respirazione e la scaraventò in un angolino lontano. << Spiegati. >>
<< Avete sentito lord Berkley. Ci sono degli usurpatori. >>
<< Oh, Owen! E tu ci credi? Dai retta a un vampiro! >> Sonja poggiò la schiena contro il muro e si passò le mani sulla pelle pervasa da tremori.
<< Non dovete avere paura. Vi proteggerò contro chiunque si permetta di toccarvi. >>
Sonja strabuzzò gli occhioni lucidi e si scostò i capelli dal viso. << Allora che mi dici di Nathan? Mi proteggerai anche da lui? >>
Owen le strofinò le spalle come per indurre la principessa a concentrare l’interezza dei suoi timori su di lui, più che a infonderle calore. << Nathan non rappresenta una minaccia per me. E non temete per vostro padre. Berkley non gli torcerà un capello. >>, la rassicurò come se avesse letto nei suoi pensieri. Come sempre. << Claudius dirà i nomi dei traditori e per ricambiarlo, Atlas dovrà cedere qualche piccolo favore al vampiro. Speriamo solo che il prezzo non sia troppo alto. >>
<< Owen, che ne dici se…se ce ne andassimo dalla corte per non tornare mai più. Ora. >> Il Gelo sollevò piano la testa, immaginando di trovare una galoppante furia che deturpasse i raffinati zigomi di Eoghan.
Invece Owen era impietrito, come se lei avesse appena detto una sciocchezza di prim’ordine, una proposta inammissibile. << Non scherzate, Sonja. >>
Lei portò le mani al petto quando udì delle urla di dolore e appelli di soccorso provenire da un gruppo di sidhe, che chiedevano pietà affinché Atlas fosse misericordioso e risparmiasse loro la forca.
<< Li hanno presi… >>. Ciò che disse Sonja fu solo un flebile mugugno coperto dallo sferragliare delle catene di ferro che le guardie stavano portando nelle stanze sotterranee. Le cabina delle torture.
Sonja ebbe dei pesanti conati di vomito e anche se non poteva vedersi a uno specchio, sapeva di avere un viso terreo, scandalizzato dagli avvenimenti che stavano per verificarsi. Per lei era inconcepibile fare violenza alla natura e a qualsiasi altra creatura vivente. La vita andava preservata, non distrutta ed annientata in una manciata di polvere.
Ma il Gelo non doveva arrendersi. Non doveva perdersi d'animo.
<< Vieni. >> per una volta Sonja si gongolò nella gratificazione di essere lei a guidare Owen in quel dedalo di corridoi.
Introdotti nella sua camera, Il Gelo perlustrò gli stipetti invetriati vicino al suo letto e buttò per terra scatole, cosmetici e sciarpe che caddero con un sonoro tonfo. Scavando, allungò una mano più in fondo e a tastoni agguantò un portagioie intarsiato con antiche gemme scarlatte. Lo aprì rudemente e afferrò una mappa piegata su due lati e un oggettino grande quanto una falange.
<< Cos’è? >> Owen non era sicuro di quello che la principessa nascondesse e, in ogni modo, voleva sentirglielo dire.
<< È una pietra di Atlantide. >> si giustificò lei, distendendo la mappa geografica sul tappeto ai piedi del letto e tenendo stretto fra le dita un cristallo trasparente che mandava spire iridescenti sulle sue guance arrossate. << Ho sperimentato anni su anni una cura per la mia maledizione. Ma non c’era verso. Mia madre era una grande conoscitrice delle arte magiche e ha fatto di tutto per rendere fallimentari i miei tentativi. >>
Owen si chinò affianco a lei, osservando interessato la annotazioni della principessa sul bordo della cartina studiata con cura. Vi erano presenti rialzi a onda dove il sudore di Sonja si era asciugato evaporando dal foglio.
<< Noi siamo qui, a San Diego, e il mio guerriero può vivere ovunque. Ho controllato per due anni tutta l’Asia, l’Europa occidentale ed i Paesi dell’Est, ma niente di niente. Sette mesi fa ho concluso con l’Australia e l’America Latina. Un altro buco nell’acqua. >> Sonja calmò il battito del cuore impazzito dall’emozione di confessare i suoi segreti a qualcuno, cosa che non avrebbe mai fatto se non con Owen. << Ma quando Artemisia ha nominato Cloud Town, ho avuto un’illuminazione. La sua energia è incommensurabile, Owen...ed è per questo che Claudius ha conquistato un Potere estraneo e superiore alle capacità tipicamente vampiresche, come il teletrasporto e la resistenza al sonno diurno. Ha attinto da quel Potere. >>
Eoghan seguiva il ragionamento trattato da Sonja affascinato.
La principessa era proprio una donna saggia e trascendente, e Berkley non mentiva sul fatto che lei sarebbe stata una fantastica Alma Mater, rivoluzionando l’intero sistema politico della corte. << E come? Con i cristalli di Atlantide? >> le chiese con un cenno del capo.
<< Forse sì, forse no. Anche una strega e un negromante ne sarebbero capaci. L’importante è essere in comunicazione con il Potere. Una volta lessi su un libro della biblioteca di mio padre che solo delle creature particolari hanno queste facoltà tendenzialmente sviluppate. Mi pare le chiamassero "le Incantatrici". Purtroppo gira voce che la loro stirpe sia stata spezzata e mai più ricostituita, quindi escludiamole dalla lista. >>
Sonja si legò i capelli con un elastico, visto che il sudore le scorreva intorno al collo e colava lungo la sua schiena madida.
<< State parlando di Nikita, vero? >> fece Owen con una nota di apprezzamento.
<< La leggendaria Nikita, già…>> concordò Sonja << è un mito anche per Artemisia, pensa un po’. Lei sì che era una guerriera di puro cuore e mi avrebbe aiutata, se fosse ancora viva. >>
<< Era l’Incantatrice, principessa. E noi sidhe l’abbiamo sempre rispettata, e tutti quelli che l’hanno vista, come Sinclar, sono stati irretiti dal suo fascino. I suoi occhi erano come specchi dove potevi ripercorrere i peccati delle tua esistenza in un breve, doloroso miraggio. Mi rammarico di non averla mai conosciuta, ma è meglio così. Non so se sarei riuscito a sostenere il peso dei miei errori. >>
<< Owen…>> Sonja gli carezzò i capelli mentre Eoghan scuoteva la testa. << Non dobbiamo guardare al passato, nonostante il presente sia angosciante e il futuro imprevedibile. >>
<< Certo… comunque… continuate il vostro discorso. >> Lui le prese la mano procurando una sufficiente scarica di adrenalina da riempirla di determinazione.
<< Il cristallo di Atlantide era usato per svariati motivi, dal campo psichico a quello medico, per smaterializzare le sostanze o come cura antinvecchiamento. Nell’isola di Atlantide, secondo la leggenda, esisteva un’enorme piramide con una pietra del genere alla punta, ed era così che gli Atlanti la esponevano al Potere della luna o del sole. Però io ho approfondito le ricerche su questo cristallo, scoprendo che funge anche da sentore energetico. E se uniamo i nostri Poteri, mi risulterà più facile localizzare il mio salvatore. Non ti costringo, se preferisci astenerti dal rito. >>
Eoghan annuì. << Iniziamo. >>
Sonja fu sollevata nel sincerarsi che la sua guardia personale non avesse nulla da ridire, ma che si offrisse volontaria senza problemi.
<< Prendi la mia mano e non lasciarmi per nessun motivo, altrimenti il flusso di energia si romperebbe e non avremmo le forze necessarie per ripetere tutto daccapo. >> precisò lei con voce vellutata.
Inginocchiati uno di fronte l’altra, crearono un cerchio congiungendo gli avambracci. Il cristallo poligonale con la sommità a forma piramidale era ritto e acuminato, e occupava un esiguo spazio tra Owen, Sonja e la cartina.
L’unica speranza del Gelo era di far innescare il suo Potere e quello di Eoghan, e di intrufolarsi nelle reti energetiche del mondo fairy.
Claudius aveva fatto lo stesso, ripensò Sonja, utilizzando però la forza spirituale di Cloud Town.
Sonja si concentrò confutando le ipotesi di un possibile esito negativo del rituale. Doveva sfruttare la positività che traspariva dall’accentuata piegatura delle labbra di Owen e non sprofondare nelle sue insicurezze ingannatrici.
Sonja mantenne saldo il legame con Eoghan e iniziò ad invocare il suo Potere che eruttò sulla sua pelle come flutti di lava che striano di rosso i pendii di un vulcano.
Sentì come se un lucchetto della sua mente si fosse allentato, e il suo potenziale si innervò tra i confini della sua mente e si unì a serratura con la sorgente vitale di Owen, che lo cingeva in un focolare azzurro.
L’atmosfera carica di magia fatata vorticava in senso orario lungo la circonferenza del campo mistico con riverberi arancioni e celesti, che ondeggiavano come la pellicola dell’oceano perforata dal vento.
Il Potere venne risucchiato dal cristallo sempre più brillante, che mandò una linea di quel chiarore paranormale su un punto della mappa, a Cloud Town. Poi si rigettò su un muro delineato da due pesanti tende di velluto a effetto laser.
Sonja vide uno spesso fascio luminescente rischiararsi, come un proiettore cinematografico d’altri tempi che riporta i fotogrammi di una vecchia pellicola sul grande schermo.
Inizialmente le visioni proiettate erano indistinte, non molto nitide in quello strascico confuso e colorato.
A bruciapelo, un viso bruno e due occhi verde smeraldo rubarono la scena, rivelando poco a poco una liscia frangetta nera e un paio di guanti da rockstar borchiati e forati alle dita.
Apparve con uno scatto l’immagine completa, una ragazza di colore che dondolava aiutandosi con i suoi fianchi rotondi.
La giovane reggeva un microfono in mano e, movimentata dal ritmo del basso e della batteria che accompagnavano il suo canto appetibile, si scateneva in una danza armonica ed esuberante. Seguiva con le unghie un tracciato nell’aria, come a riprodurre le note musicali su uno spartito che solo lei immaginava di avere.
La puro di cuore...a Cloud Town...lo sapevo...
La bestia di Sonja protestò cercando di rovinare quell’incantevole momento. Ma lei non si fece intimorire lasciando che la smania dell'aquila vincesse il predominio nella sua testa.
<< È lei? Ne siete proprio sicura? >> la interpellò Owen con palese scetticismo.
<< Sì. >> quel monosillabo fu la sola risposa che Sonja riuscì a dare. Stava esplodendo per l’impazienza di catapultarsi fino a Cloud Town anche a piedi nudi. << Non ci posso credere! Ce l’abbiamo fatta! >> Il Gelo trovò rifugio tra le braccia di Owen che l’accolsero con reciproco entusiasmo, e rise anche se la gola le doleva e i muscoli protestavano per i suoi gesti burrascosi.
Sonja roteò gli occhi in alto e osservò un Owen attanagliato da una strana esitazione.
Eoghan inaspettatamente affondò le dita tra i capelli di Sonja, liberi dall’elastico, e protese la sua bocca verso di lei, in cerca di qualcosa di totalmente diverso da una contenuta carezza. La principessa, paralizzata, non si mosse se non quando quel bacio tanto atteso permeò sulle sue labbra tremanti.
Le sembrò di gettarsi in una lettiga fatta di soffici piume...
Stuzzicandolo prima con i denti, si resse alle vigorose spalle di Owen e a quel contatto che divenne sempre più appassionante, travolgente, con le gambe scoperte ai lati degli stivali di Owen. La delicatezza venne sostituita dal bisogno che entrambi scoprirono di avere, la necessità di toccarsi senza infrazioni di regole o severi dettami da dover rispettare. Owen le afferrò il bacino sollevandola sopra di sé e non abbandonò quel bacio furioso neanche quando una dolorosa sensazione di freddo gli fece venire la pelle d’oca e gli suggerì di staccarsi a malincuore dalla ragazza.
Sonja interruppe la loro lenta esplorazione, coprendosi con un palmo le labbra arrossate. << Non possiamo. >> bofonchiò come se avesse pronunciato quel rifiuto contro la sua volontà. Sonja non desiderava altro che rigettarsi nel calore confortante che solo Owen era in grado di fornirle. Forse la colpa era di una semplice attrazione fisica o dei suoi ormoni surriscaldati. Qualunque fosse il responso, era sbagliato provare quei sentimenti per Owen. Lui sarebbe morto per assideramento e Sonja avrebbe compianto la sua scomparsa fino al Giorno del Giudizio, nel senso di condanna più atroce, precipitando in un dolore quasi liquido.
Insoddisfatta, Sonja non capì più nulla, né il richiamo dell’aquila che dimorava in lei e che si contorceva furente, né i sapori speziati e fragranti che arrivavano dalle cucine del castello.
Owen si rimise in piedi e fece dietrofront. << Perdonatemi per la mia ingiustificabile invadenza. Non succederà mai più. >> Frugò nelle aperture interne della giubba e portò alla luce un rotolo di pergamena legato con un filo sfilacciato.
Sonja si accorse di desiderare il contrario e ricacciò indietro la sua riluttanza a dire di no a quel bacio strepitoso.
<< È quello che penso che sia? >> domandò lei, avvicinandosi alla sua guardia prediletta. << È una pergamena del tempo? >>
Owen gliela consegnò gentilmente e Sonja lo ringraziò con un sorriso sghembo. Non era ancora capace di guardarlo negli occhi.
<< Atlas me ne diede una per andare in missione a Budapest, qualche mese fa, ma non la usai per questioni pratiche. Ho pensato potesse servire in futuro. >> Un tono imbarazzato si impose nella voce di Eoghan, che immobilizzò lo sguardo sui tasselli del mosaico pavimentale. << Basta scrivere al centro del foglio la destinazione stabilita e si formerà un portale che vi spedirà ovunque vogliate. >>
Sonja annuì, soffermandosi sugli intrecci filiformi della pergamena che erano stati realizzati a mano con indiscussa precisione.
Il Gelo si schiarì la voce prima di biascicare: << Verrai con me? >>
<< Non posso abbandonarvi, e Cloud Town non è un luogo raccomandabile per una principessa. >>
<< Non lo è per nessuno, stanne certo. >> Si sorrisero a vicenda, placando la tensione del viaggio che stavano per compiere.
Sonja, in fretta e furia, riempì poche sacche con banconote e gioielli di famiglia, tralasciando i capi appesi nel suo armadio perché sarebbero stati troppo bislacchi e fuori moda nel mondo degli umani. Almeno, una volta raggiunta Cloud Town, avrebbe venduto gli oggetti preziosi di cui disponeva e noleggiato una camera in un hotel, giusto il tempo di rintracciare la puro di cuore e spezzare il maleficio con il Sodalizio di sangue.
Sonja mise per iscritto il nome della città sulla pergamena e abbracciò Owen consapevole del forte impatto della transportatio. Un lampo accecante li tramortì e luccicò per alcuni secondi, riverberando il suo abbaglio sulle pareti e fuori dalla finestra socchiusa.
Di Sonja non rimase altro che il ricordo illanguidito dei suoi capelli biondi che sferzavano il viso di Owen e trascinavano una leggera ondata di gelo.
Da ora in poi, quella stanza sarebbe stata ancora più fredda senza la sua calorosa, dolce presenza.


Berkley, dopo essersi eclissato dalla corte di Atlas, orbitò nella sua limousine con i finestrini neri usati come scudi antisolari. Allentato il nodo alla cravatta, si rilassò sul sedile posteriore e assunse un carattere più o meno estasiato. Si era nutrito abbondantemente per mantenersi in forze di giorno, all’una del mattino, con il sole di San Diego che spaccava le pietre. Città troppo assolata per i suoi gusti.
<< Signore, questi sono i documenti da lei richiesti. >> Il famiglio di Claudius consegnò al vampiro una busta rigida, dalla consistenza massiccia.
Questi gliela strappò di mano, ansioso di esplorarne il contenuto voracemente. << Perfetto...quando sono state scattate? >> lo interrogò Berkley estraendo una decina di fotografie in bianco e nero che mantenne ferme su un palmo esangue.
<< Questa mattina. Alle otto e mezza, nove. >> rispose il segretario con un filo di voce, toccandosi i fori sul collo che avevano da poco smesso di sanguinare. << Fortunatamente, il vostro piano ha funzionato, mio signore. >>
<< Ah-ah-ah! Uccidi delle povere pulzelle innocenti e le Incantatrici abboccano all’amo come pesci! >> Claudius si prese beffe di quelle onorevoli paladine, degustando i sospirati frutti che i suoi sforzi stavano per dare dopo secoli di progettazione.
<< Chiama Alexis. Dille di andare da Kyle Reed dopo il crepuscolo e di mandarlo nel mio ufficio. >> gli ordinò il vampiro lanciandogli addosso il suo BlackBerry prelevato dalle tasche del trench.
Claudius fece un respiro eccitato. << Beatrix Miller…>> I canini di Berkley si estesero dalle gengive come due lance affilate, guardando la giovane donna dalla bellezza sovrumana immolata nelle foto, con i capelli sparsi e un trolley in mano mentre attraversava il terminal dell’aeroporto di Los Angeles, diretta alla Ford che l’avrebbe condotta a Cloud Town nel giro di un’ora o due. << …finalmente. >>